Accountability: meglio un sottosegretario che una responsabilità
17/04/2013 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Accountability è una bella parola inglese che denota il senso di responsabilità per cui si risponde delle proprie azioni ai soggetti che ci hanno eletto o nominato. Non c’è una precisa traduzione in italiano. E forse non è un caso. È un concetto abbastanza estraneo alla nostra cultura, specie se applicato al mondo della politica. Eppure se ne parla spesso in queste settimane sotto diversi profili. Il rischio è che poi ce ne dimentichiamo al momento delle riforme.

Innanzitutto la nostra legge elettorale – il famigerato Porcellum -, impedendo agli elettori di scegliere per quali candidati votare, ha totalmente eliminato ogni rapporto tra l’eletto e la propria constituency. Si viene eletti solo in virtù dei risultati del partito e delle scelte della segreteria politica sull’ordine di lista: dunque non si risponde all’elettorato della propria circoscrizione. Anzi, spesso, si viene catapultati in una diversa regione, ove non si ha alcun legame con il territorio, solo perché lì il partito è più forte e può garantire l’elezione. Mentre, nel mondo anglo-sassone alle successive elezioni vengono rinfacciati al candidato i voti espressi in Parlamento durante la legislatura – e possono costare la rielezione – da noi neppure se ne parla. Sarebbe interessante, invece, sapere cosa pensano gli elettori del proprio rappresentante che ha votato mostrando di ritenere che Berlusconi credesse che Ruby fosse la nipote di Mubarak, oppure che ha approvato il redditometro senza battere ciglio. La disciplina interna di partito prevale sulle convinzioni individuali e chi non si adegua rischia di essere escluso nel futuro. Basta pensare ai “processi” ai dissidenti del M5S che hanno votato diversamente dalle istruzioni ricevute per le Presidenze delle Camere.

Anche per i partiti politici, l’accountability verso gli elettori è l’eccezione e non la regola. I programmi sono scritti e subito cambiati, anche più volte, nel corso della stessa campagna elettorale. E’ il caso della patrimoniale inizialmente proposta dal Pd e poi mai più nominata o delle numerose giravolte di Monti nell’arco di due soli mesi; per non dire delle promesse del Pdl sull’IMU e restituire (in contanti!) l’imposta pagata nel 2012, del tutto incoerenti col quadro di finanza pubblica prospettato nel programma “ufficiale”. Così non sono presi sul serio e la gente vota piuttosto sulla base della lealtà per un partito o di emozioni temporanee (rabbia, protesta, ammirazione, ecc.). In America, invece, Bush senior perse le elezioni del ’92 perché aveva detto “read my lips: no new taxes” e non mantenne la promessa. Del resto che i programmi non valgano la carta su cui sono scritti si vede anche da ciò che sta accadendo in questi giorni. Nonostante le apparenti profonde divergenze tra destra e sinistra, ora si cerca un accordo di governo su un programma che nella sostanza è largamente condiviso (come rilevato anche nei nostri precedenti interventi, per esempio qui e qui). In più di una trasmissione televisiva abbiamo perfino visto delle slides che dimostrano come tutti i partiti “dicano” ora di volere più o meno le stesse cose. Che poi sono sempre quelle che la BCE ci aveva chiesto di fare quasi due anni fa e ora in larga parte i saggi hanno reiterato.

Stesso discorso per quanto riguarda le imprese pubbliche. I top manager sono nominati dai partiti e a questi rispondono, anziché agli azionisti o agli altri stakeholders. Fatto ancor più grave quando si tratta di società quotate che dovrebbero assoggettarsi alle regole del mercato. Che dire poi delle fondazioni i cui vertici, nominati dagli enti locali, dovrebbero occuparsi di attività filantropiche per il territorio e invece gestiscono banche e si occupano di spericolate operazioni finanziarie, come la storia recente ci ha dimostrato. A chi rispondono se sono praticamente inamovibili?

Da ultimo, c’è la pubblica amministrazione nella quale veramente nessuno è mai accountable, anche perché è difficile identificare chi è responsabile e comunque raramente chi sbaglia paga. Certamente non risponde al cittadino, che ha ben pochi rimedi per farsi sentire. Col federalismo, poi, i funzionari degli enti territoriali finiscono spesso per non curarsi più nemmeno delle richieste provenienti dal governo centrale. Basta ricordare che solo una percentuale ridotta degli enti locali ha risposto alla richiesta del Ministero dell’Economia di censire gli immobili pubblici detenuti dalle amministrazioni. L’unico deterrente all’arbitrio è il timore di una condanna per danno erariale. Ma anziché indurre a una più sana gestione, spesso finisce per paralizzare l’azione dell’amministrazione che preferisce farsi trascinare in causa, per poi conformarsi a una sentenza di condanna, piuttosto che assumersi delle responsabilità.

Insomma, aveva bene interpretato l’attitudine nazionale Longanesi quando diceva che è meglio assumere un sottosegretario che una responsabilità. Si fa un gran parlare di questi tempi di riformare le istituzioni. Dovremmo ripartire da qui.

Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle

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