Grecia: te la do io la democrazia
07/07/2015 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Il dado è tratto. La Grecia ha votato per il no. Non è chiaro cosa ciò voglia dire esattamente, in termini tecnici, perché la proposta su cui il popolo greco si è espresso non era neppure più in discussione, come molti hanno già messo in luce. È stata certamente una prova di forza di Tsipras che ha così dimostrato di non essere solo un irriducibile estremista isolato, ma un leader che – nel bene o nel male – ha la maggior parte del paese dalla propria parte. Per molti è stata una battaglia di democrazia. Ma è proprio vero?

Il referendum è stato convocato con poco più di una settimana di preavviso, il testo del quesito era poco comprensibile e, comunque, impreciso. I partiti hanno fatto leva sulle emozioni e i timori più profondi della gente: l’orgoglio nazionale, da un lato, e la paura di perdere tutto, dall’altro. Lungi dunque dall’essere un ragionato voto su una difficile scelta politica, il referendum si è trasformato in un pronunciamento popolare contro l’austerity, contro la Merkel, più in generale contro le politiche di condizionalità (in sintesi: prestiti a fronte d’impegni a effettuare riforme strutturali). Insomma un voto “contro”, improvvisato e senza un piano B su cosa dovesse succedere il giorno dopo per effetto del risultato referendario, se non una generica promessa che poi in 48 ore si potrà chiudere il negoziato.

Provate a immaginare se qualche altro leader “carismatico” avesse posto un simile quesito, infiammando le piazze contro i “terroristi” dell’eurocrazia cosa avrebbero detto le stesse persone che hanno visto in Tsipras un campione della democrazia questi giorni. Altro che superamento della democrazia rappresentativa! Sarebbe stato tacciato di populismo, qualunquismo e magari anche di fascismo. In fin dei conti la prevalenza della piazza sulle aule parlamentari è normalmente prerogativa di ben altri orientamenti politici.

Eppure, Tsipras ha incassato non solo il sostegno delle sinistre più radicali, che non potevano che schierarsi con l’unica forza comparabile al governo in un paese europeo, ma anche di molti intellettuali ed economisti liberal (a partire da Jeffrey Sachs e dai premi Nobel Stiglitz e Krugman) che ne hanno fatto il campione nella propria guerra personale contro le politiche di austerity. Peccato che qui non si trattava di scrivere paper o editoriali infuocati contro gli odiati liberisti, ma della vita di milioni di persone che da un giorno all’altro potrebbero trovarsi tutti i risparmi di una vita bruciati da una pesante svalutazione della dracma. Per paradosso, se Atene dovesse abbandonare la moneta europea, i greci si troverebbero costretti ad attraversare una fase di austerità de facto molto più dura, perché soggetta al vincolo della sostanziale inaffidabilità agli occhi dei creditori (e dunque al costo estremo delle operazioni di rifinanziamento del debito sovrano).

La verità è che non ha vinto Tsipras, ma hanno perso Merkel, l’Eurogruppo e in generale tutti coloro che hanno scommesso sulla defenestrazione del governo greco e un rapido ritorno alla normalità. Le pesanti ingerenze non solo dei leader di altri paesi (in parte motivate dal timore di veder crescere in casa propria partiti analoghi a Syriza), ma anche dei rappresentanti delle istituzioni comuni hanno avuto un effetto contrario, spingendo i greci a votare no.

Questo però – si badi bene – non è stato un voto contro l’Ue e neppure, come molti hanno cercato di far credere, per l’uscita dall’euro. Al contrario, seppure senza forse cogliere tutte le possibili implicazioni di un default, i greci hanno rischiato tutto e creduto a Tsipras che assicurava che proprio grazie a questa prova di forza avrebbero potuto restare nell’eurozona a condizioni accettabili.

Partendo da questa considerazione si può ricostruire il dialogo e la fiducia reciproca. Ovviamente non bisogna dar retta ai falchi di entrambi gli schieramenti e cercare soluzioni onorevoli per tutti. Ripartendo dagli aiuti umanitari. Il Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea già prevede che il Consiglio, su proposta della Commissione, possa decidere, in uno spirito di solidarietà tra Stati membri, le misure adeguate alla situazione economica, in particolare qualora sorgano gravi difficoltà nell’approvvigionamento di determinati prodotti. La BCE può tenere aperti i cordoni della borsa con la liquidità necessaria a non far chiudere le banche, mentre si riprende a discutere. Le posizioni non erano lontane, prima della rottura dei negoziati. Le dimissioni di Varoufakis sono, da questo punto di vista, una non banale concessione di Tsipras ai suoi interlocutori, in quanto in tal modo il protagonista più urticante del negoziato si fa da parte per cedere il passo ad atteggiamenti più pragmatici e meno plateali.

Alla fine, pensiamo ancora che un accordo si possa trovare perché serve a tutti. Ma la vittima di questa crisi sarà probabilmente la politica di condizionalità così come l’abbiamo vista in Europa negli ultimi 6 anni. Dopo la Grecia sembra difficile, infatti, pensare all’economia di altri paesi eteroguidata dalla ex Troika.

In inglese, un detto popolare dice che si può trainare un cavallo fino all’acqua, ma non si può farlo bere. L’Ue può fornire il pretesto per superare le resistenze politiche interne, ma se un paese le riforme non le vuole fare è difficile imporle. E allora bisognerà pensare a regole diverse per i paesi virtuosi e per quelli riottosi. I primi, per esempio, potranno avere la condivisione dei rischi e la protezione del bilancio dell’Unione non accessibile ai secondi. Insomma, dove non si riesce ad arrivare con il bastone proviamoci con la carota.

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

Prossimi appuntamenti

The European Business Code Project, Europa experience-Davide Sassoli, Piazza Venezia 6, Roma, 29 settembre 2023

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