Grexit, c’è del metodo in quella pazzia
05/02/2015 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Secondo un vecchio detto, se ho un debito in scadenza e so di non poterlo rimborsare non riuscirò a dormire, ma se il debito è molto importante, sarà il mio creditore a non dormire per la preoccupazione del mio default. La Grecia ha un debito di 240 miliardi di euro in base al piano di salvataggio internazionale a suo tempo concordato. La partita che si sta giocando in questi giorni ripropone i termini di questa storiella: il governo greco pensa che questo debito sia così rilevante da poter strappare delle sostanziali concessioni ai propri creditori, preoccupati dai rischi di “contagio” nell’Eurozona, mentre questi ostentano indifferenza, mostrando di ritenere che il problema sia tutto della Grecia che a fine mese vedrà terminare il programma di assistenza negoziato con la Troika (Bce, Fmi e Commissione europea) e dunque rischia di diventare presto inadempiente, con tutte le conseguenze drammatiche facilmente prevedibili. Nel dubbio su chi abbia ragione i greci continuano a prelevare liquidità dalle banche a ritmi giornalieri elevatissimi, i titoli delle banche sono crollati e la Bce non sta più consentendo loro di approvvigionarsi di liquidità dando in garanzia titoli di Stato. Insomma una situazione che rischia di avvitarsi su stessa, come in un circolo vizioso, e che potrebbe deflagrare da un momento all’altro.

La decisione di Francoforte, in particolare, rischia di apparire come il “trigger” di una nuova crisi finanziaria e diplomatica, anche se a ben guardare non fa altro che ribadire gli obblighi a cui la Bce è soggetta in virtù dei trattati europei. Il futuro dell’euro passa dalla gestione di questa crisi e dall’abilità dei negoziatori di trovare un accomodamento che sia reciprocamente accettabile e al tempo stesso coerente con le regole Ue, come argomenta Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera di oggi. Tuttavia, non bisogna prendere troppo alla lettera le parole di questi primi giorni post-elezioni. È più corretto, semmai, inquadrare la cronaca nel normale contesto di una (dura) negoziazione sulla ristrutturazione del debito.

Come dimostrano le vicende dei tanti gruppi privati divenuti insolventi in questi lunghissimi anni di crisi, il debitore strilla sempre che non ha fondi e non può pagare, inizialmente domanda una moratoria nel rimborso, poi minaccia scenari apocalittici e azioni di vario tipo e chiede il taglio di una porzione significativa del debito alle banche (si parla in gergo di “haircut” ovvero “di taglio dei capelli”) oltre alla ristrutturazione a lungo termine di quello restante. In questo processo, il debitore si fa assistere da consulenti e una banca d’affari che lo aiutano a predisporre un business plan e un piano finanziario credibile. Spesso finisce con una soluzione di compromesso perché le banche sanno che il fallimento del debitore è politicamente o socialmente inaccettabile: così sono costrette a fare buon viso a cattivo gioco, accettando ad esempio di convertire almeno in parte i propri crediti in azioni, nella speranza di un effettivo turnaround.

A ben vedere è più o meno quanto stanno facendo Tsipras e il ministro Varoufakis in questi giorni. Passata la campagna elettorale in cui sono prevalsi i toni massimalisti, è iniziato il tour delle capitali europee per cercare supporto, affiancati da un advisor esperto come la banca Lazard, e i toni si sono fatti più concilianti. Non si parla più di taglio secco del debito, ma di un duplice swap: una quota sarebbe sostituita da nuovi titoli a tassi parametrati alla crescita economica nominale del paese, mentre quelli in mano alla Bce sarebbero sostituiti da “obbligazioni perpetue” ovvero senza scadenza (che cioè pagano tassi più elevati, ma che non comportano mai il rimborso del capitale e che sono riacquistabili dall’emittente ad nutum). Si tratta di ingegneria finanziaria per rendere più presentabile (e dunque politicamente più accettabile) quello che nella sostanza è un taglio del debito.

Non è poi così inverosimile quanto viene richiesto dalla Grecia. Lo stesso Economist, che certamente non può essere tacciato di simpatie per il governo di Tsipras, ha scritto che è per definizione insostenibile un debito pari al 175% del Pil e che pertanto sarebbe giusto ridurre in qualche modo il carico eccessivo di questo debito che comunque non potrà mai essere rimborsato. Ciò che però non può essere consentito – aggiunge il settimanale britannico – è che il nuovo governo abbandoni la strada delle riforme strutturali, come invece aveva promesso in campagna elettorale. Le prime decisioni dopo le elezioni – sospensione del programma di privatizzazioni in primis – più che preludere a una svolta politica ci sembrano una mossa tattica in questa partita di poker. Un’arma di riserva che Tsipras si è tenuto per negoziare al meglio. Così come, dall’altro lato, si dice che in Europa fossero già pronte delle concessioni per il governo Samaras, ma che poi prevedendo la sua caduta con le elezioni si sia preferito tenere queste carte in mano per poterle giocare con il nuovo governo.

Possiamo dunque attenderci che le negoziazioni, dopo alti e bassi, un attimo prima della scadenza, giungano a un risultato parzialmente positivo, probabilmente dopo un’ulteriore proroga fino a giugno, come chiede ora la Grecia. La prova di forza non giova a nessuno. Vi è però sempre il rischio che la situazione degeneri perché il confronto diventa politico e non più tecnico. Occorre invece salvare la faccia a tutte le parti, consentendo una riduzione o rimodulazione del debito che lo renda sostenibile, a fronte di un’accelerazione sul terreno delle riforme strutturali. Del resto, spesso le riforme più difficili politicamente sono adottate proprio dai governi di sinistra che riescono a ottenere il consenso popolare necessario. Sarà un test importante anche per dimostrare che in fin dei conti le regole in Europa possono essere modificate, con gradualità e ragionevolezza, come ha reiteratamente chiesto il nostro governo. Il problema è che non sempre i tempi per ottenere i consensi necessari sono compatibili con quelli della crisi.

Insomma, mentre il leader greco è stato dipinto come un pericoloso demagogo ed estremista, per dirla con Shakespeare, sembra che vi sia del metodo in quella pazzia. O almeno così ci piace pensare.

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

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