Il fascismo e la teoria delle finestre rotte
23/02/2018 di Alberto Saravalle.

La teoria delle finestre rotte – sviluppata in un articolo del 1982 partendo da un esperimento dello psicologo statunitense Phlip Zimbardo – postula che se in un palazzo viene rotto un vetro e non viene immediatamente riparato, in breve seguiranno altri atti vandalici e tutte le altre finestre finiranno per essere infrante. In altri termini, i fenomeni di disordine e violenza sono tra loro strettamente collegati cosicché la tolleranza iniziale fa sì che essi si moltiplichino fino a diventare incontrollabili.

È esattamente quanto sta accadendo negli ultimi tempi. È sufficiente scorrere le notizie di cronaca che si fanno sempre più frequenti: dal raid dei naziskin a Como al blitz sotto la sede di Repubblica, dalla sparatoria di Traini a Macerata al recente pestaggio di un leader di Forza nuova a Palermo fino al blitz negli studi di La7. Ma non basta: anche le dichiarazioni di molti politici superano ormai troppo spesso gli standard di accettabilità. Ne sono un chiaro esempio il post antisemita di Corsaro contro Emanuele Fiano, il riferimento alla razza bianca a rischio del candidato governatore della Lombardia Attilio Fontana e le frasi di Giorgia Meloni sulla cospirazione (plutogiudomassonica?) di Soros che finanzierebbe l’immigrazione di massa in Europa per favorire la distruzione degli stati nazionali. Non c’è limite al peggio e il rischio è che un po’ alla volta si finisca per assuefarsi a queste vergognose esternazioni.

Le voci di protesta ovviamente non mancano, ma vengono frequentemente sovrastate da paradossali giustificazioni (es.: la stessa Costituzione parla di razze). Il richiamo ai valori dell’antifascismo, che ha contraddistinto i primi cinquant’anni di storia repubblicana, oggi non riesce a fare breccia perché è spesso percepito come datato storicamente. In particolare molti giovani – che sono i più esposti a queste suggestioni – non si riconoscono più in quella professione di antifascismo militante che si basa su un passato per loro remoto e poco conosciuto.

Così hanno buon gioco coloro che, da un lato, cercano di minimizzare la gravità degli episodi di violenza, attribuendoli a isolati comportamenti di delinquenti o squilibrati, e dall’altro sostengono che non vi sia un pericolo fascista perché esso appartiene ormai alla storia e non potrebbe tornare senza un leader carismatico come furono Mussolini o Hitler.

Queste argomentazioni giocano sulla semantica, per non affrontare il nocciolo della questione. È evidente che oggi non siamo in presenza di un rischio concreto che si reiteri un regime fascista inteso in senso storico. È però in corso una pericolosa legittimazione, da una parte significativa della classe dirigente, di comportamenti che non possiamo che definire “fascisti”. Con ciò intendendosi, a prescindere dal ricorso a simbologie riferibili al fascismo o nazismo, la violenza politica, la prevaricazione, l’intolleranza e la discriminazione (razziale, religiosa, di genere, etc.) e, più in generale, l’autoritarismo. Non si tratta però di un fenomeno solo italiano. Basti pensare a quanto sta accadendo negli Stati Uniti dove, con l’arrivo alla presidenza di Trump, sono stati “sdoganati” comportamenti e posizioni politiche della destra alternativa e oltranzista (la cosiddetta “alt right”) finora ritenuti inammissibili.

Un po’ alla volta la polemica contro i flussi migratori non controllati viene strumentalizzata per canalizzare la protesta del gran numero di “perdenti” nella crisi che si trascina da dieci anni (giovani disoccupati, vittime della delocalizzazione delle imprese, lavoratori di mezza età che non trovano più lavoro, etc.) trasformandosi in un vuoto nazionalismo (economico e politico) e in un’antipolitica che non si tira indietro dinanzi al ricorso alla violenza fisica e verbale. Non dimentichiamo che ormai diversi stati dell’Unione europea (Ungheria e Polonia in testa), che dovrebbero condividere i nostri stessi valori fondanti, si sono avviati su un percorso simile e oggi in quei paesi i principi dello stato di diritto sono considerati a rischio. Una situazione che poteva apparire inimmaginabile solo qualche anno fa.

Se questa è la diagnosi, la prognosi non è certo positiva. Riprendendo la metafora iniziale, la cura deve comprendere, da un lato, pesanti sanzioni per chi rompe i vetri accompagnate da un efficace intervento di riparazione; dall’altro lato, però, occorre farsi carico del disagio sociale senza sottostimarlo (con un altrettanto superficiale buonismo) o negarne l’impatto avvertito da molti. Questo vuol dire tolleranza zero non solo per i facinorosi (verbali o fisici), ma anche per coloro che cercano di giustificarli in qualche modo contribuendo così, più o meno consciamente, a spostare il baricentro di ciò che è accettabile in una società civile.

Dall’altro lato non dobbiamo cadere nell’errore di demonizzare solo certi gruppuscoli estremisti, né di pensare che la violenza abbia senso unico. Come si è detto, oggi non spaventano i pochi nostalgici del regime fascista, ma i molti attivisti (di diverse tendenze politiche) che quotidianamente pubblicano post violenti nei confronti di leader politici. Il vero discrimine è tra chi si riconosce in questa battaglia e chi, per mere convenienze elettorali, è pronto a fare patti con il diavolo.

Alberto Saravalle

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