La madre di tutte le riforme è il taglio delle tasse
12/08/2015 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Cosa ci attende al rientro dopo la pausa di ferragosto? Molti si aspettano la conclusione della battaglia sul Senato elettivo. Noi, più che nel compimento delle riforme istituzionali, speriamo che settembre porti finalmente un taglio delle tasse. L’annuncio di Matteo Renzi ha suscitato le speranze dei supporter e lo scetticismo degli oppositori, ma ha il merito di riportare al centro dell’agenda politica quello che forse è il tema singolarmente più importante per le prospettive di crescita del Paese. Dietro la questione fiscale si nascondono, se non tutte, buona parte delle patologie italiane: dalla dinamica della produttività al tema degli investimenti (inclusi quelli in ricerca e sviluppo), dal disincentivo a creare reddito e ricchezza alla complessità del sistema tributario fino al gap tra Nord e Sud. D’altronde, quella della riduzione delle tasse è la grande promessa, spesso fatta (ma mai mantenuta) della politica italiana: la pressione fiscale, infatti, cresce ininterrottamente dal 2005, dopo un breve periodo di riduzione compensato però dal boom del deficit e del debito. Solo dal 2013 si è assistito a una frenata. Adesso è il momento di invertire la rotta: alcuni recenti interventi del Governo (dagli 80 euro al taglio dell’Irap fino al credito d’imposta per R&S) vanno nella direzione giusta, ma serve una manovra di più ampio respiro, più organica e soprattutto più rilevante dal punto di vista quantitativo.

Il tema del taglio delle imposte va affrontato contestualmente da diversi punti di vista, tutti ugualmente importanti. Il primo è, ovviamente, reperire le risorse per finanziare gli interventi di riduzione della pressione fiscale. Sotto questo profilo, l’intera operazione dipende dalla determinazione e dall’efficacia con cui Yoram Gutgeld e Roberto Perotti perseguiranno il compito loro affidato della spending review. Ma, a parte questo, poiché esistono numerosi tipi di balzelli, il modo in cui si interviene non è indifferente. In particolare, occorre puntare simultaneamente a tre obiettivi: 1) intervenire prioritariamente sulle imposte più distorsive (quali quelle che gravano sul lavoro e sul reddito); 2) approfittare dell’operazione per ridisegnare il sistema fiscale, riducendone la complessità; 3) coniugare tutto questo con un’azione di contrasto all’evasione che non si risolva in un mero giro di vite fiscale, ma che conduca a un’effettiva restituzione delle risorse recuperate ai contribuenti onesti.

Il punto di partenza di qualunque riflessione in tal senso non può che essere il confronto tra l’Italia e gli altri Stati dell’Ue. Il nostro Paese si colloca tra quelli a maggior pressione fiscale, sia con riferimento ai redditi da lavoro sia per quanto attiene ai redditi da capitale. Anche le imposte indirette e, negli ultimi anni, quelle sugli immobili hanno fatto guadagnare punti all’Italia in questa classifica. Per l’Iva, l’Italia non svetta, ma solo grazie all’applicazione relativamente estensiva delle aliquote ridotte, in quanto l’aliquota ordinaria (ormai pari al 22%) appare piuttosto elevata nel panorama europeo.

Sembra quindi ovvio che l’intervento debba concentrarsi soprattutto sulle imposte sul reddito, personale e d’impresa. Per quanto attiene all’imposizione sugli individui, non bisogna cadere nella facile tentazione di spostare da un gruppo all’altro il peso delle imposte, senza ridurlo in maniera effettiva, per esempio alzando le “tasse sui ricchi” per finanziare sgravi ai “poveri” oppure redistribuendo la fiscalità in modi ancor più fantasiosi. Se, infatti, tagliare le aliquote per i redditi più bassi ha effetti positivi sull’occupazione, limare le tasse per i contribuenti a più alto reddito fa bene all’intero spettro dei contribuenti, perché determina incentivi positivi alla creazione di lavoro e ricchezza.

L’esempio a cui guardare, dal punto di vista dell’equilibrio e dell’incisività dell’intervento, è quello del Regno Unito, che da alcuni anni sta perseguendo una politica di cauta, ma costante riduzione del carico fiscale. Come si legge nel rapporto della Commissione sulle riforme fiscali negli Stati membri, Cameron e Osborne si stanno muovendo a 360 gradi: sul fronte dei redditi personali hanno introdotto una serie di misure finalizzate ad alleviare gli oneri fiscali per i contribuenti a basso reddito e introdurre degli incentivi per gli investimenti individuali nelle startup. L’aliquota base dell’imposta sul reddito d’impresa è scesa tra il 2014 e il 2015 dal 28% al 20%. Non tutti sono soddisfatti del mix individuato da Downing Street, come è fisiologico e forse persino salutare, perché la critica è il sale del miglioramento. Eppure i risultati sembrano pagare, e in tal senso è utile che il Governo inglese sia pungolato a fare sempre di più e sempre meglio. La determinazione con cui Cameron ha affrontato le tasse va studiata attentamente perché è anche attraverso di essa – cioè lanciando un messaggio chiaro e univoco – che il leader britannico ha potuto poi vincere le elezioni a man bassa. Se questo deve essere il riferimento, l’Italia farebbe bene a studiarne i criteri di fondo.

Per tornare al punto di partenza, qualunque intervento sul fronte fiscale rischia di generare benefici inferiori alle attese se non affronta la questione da tutti i lati: se cioè, all’obiettivo della riduzione della pressione fiscale, non affianca quelli della semplificazione, del riequilibrio tra le diverse categorie d’imposta, e del contrasto all’evasione condotto in modo sano e non basato sul presupposto che il contribuente abbia sempre torto.

In astratto, la riforma fiscale va vista come un percorso, non come un provvedimento chiuso in sé: poiché si tratta di scardinare completamente l’impostazione del sistema tributario, è verosimile che occorra stabilire una linearità e una persistenza simili a quelle osservate negli Stati Uniti tra gli anni Settanta e Ottanta, dove il maggior taglio di sempre fu il risultato di un lavoro iniziato da Kennedy (che tagliò l’aliquota marginale sul reddito dal 90% al 70%) e concluso da Reagan (che la portò addirittura al 28%). Perché questo accada serve innanzitutto la capacità di far capire agli italiani il senso dell’operazione e la ragione dei necessari sacrifici sul versante della spesa pubblica. A Renzi non sfugge certo che questa – molto più di quella sul Senato – è la vera madre di tutte le riforme: se, dopo il jobs act e assieme alle liberalizzazioni (intese come un processo continuativo e non come un provvedimento una tantum), gli riuscirà di portare a casa in autunno una effettiva spending review accompagnata da una riduzione (non meramente elettorale) del carico fiscale, potrà dire di avere veramente toccato quelli che per molti sembravano finora santuari inattaccabili.

Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle

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