L’accordo con l’Iran non è il Patto di Monaco
02/04/2015 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

L’accordo in dirittura d’arrivo tra l’Iran e il gruppo denominato P5+1 (che comprende i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu e la Germania), oltre all’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, è stato, da più parti, vituperato, prima ancora che ne sia conosciuto l’effettivo contenuto. Benché sia evidente l’utilità di un accordo con l’Iran per stabilizzare una regione nella quale già vi sono fin troppi focolai di conflitto, esso incontra molta ostilità tra i principali paesi dell’area (da Israele all’Arabia Saudita), trova una forte opposizione nel Parlamento statunitense e ha suscitato notevoli perplessità tra gli osservatori internazionali più disincantati. Le critiche non sono però rivolte tanto al contenuto dell’accordo, quanto alla stessa volontà di cercare una soluzione anziché procedere sulla strada delle sanzioni e dell’isolamento per negoziare da una posizione di forza. Per certi versi, viene quasi comparato al famigerato Patto di Monaco del 1938 con il quale Francia e Inghilterra lasciarono mano libera a Hitler per l’annessione di larga parte della Cecoslovacchia.

La posta in gioco a Losanna è molto alta. Si sta discutendo di un accordo a vasto raggio sul nucleare che può avere ripercussioni importantissime sugli equilibri in tutto il Medio Oriente. A poche ore dalla scadenza, il termine che i negoziatori si erano dati per raggiungere un accordo quadro, da definire poi in dettaglio entro giugno, è stato prorogato di un giorno. Segno che ormai siamo prossimi alla “chiusura”.

Da quanto si è appreso, in sintesi, sono previste una serie di limitazioni, quantitative e qualitative, al programma nucleare iraniano a fronte dell’abolizione delle sanzioni. Dovranno cioè essere ridotte le centrifughe per l’arricchimento dell’uranio, le scorte di uranio già arricchito dovranno essere trasferite in Russia o diluite, la centrale di Fordow (nascosta in una montagna) sarà destinata ad attività di ricerca a scopi farmaceutici e sorvegliata internazionalmente. In generale, saranno effettuate verifiche per assicurare che il periodo necessario per eventualmente arricchire l’uranio a scopi bellici, in violazione dei patti, non sia comunque inferiore a un anno. L’idea di base è che, per almeno un decennio, le parti debbano collaborare.

Perché dunque tanta avversione? Sono comprensibili, e per molti versi condivisibili, i timori di Israele che ha l’incubo di una potenza nucleare radicale così vicina ai propri confini. Ciò però non giustifica il comportamento provocatorio tenuto da Netanyahu con il proprio discorso a Washington poco prima delle elezioni in Israele. L’Arabia Saudita, per parte sua, teme un rafforzamento della maggiore potenza sciita della regione che, qualora vengano eliminate le sanzioni, potrebbe riprendere le esportazioni di petrolio e acquistare maggior peso e influenza nella regione. Ma ciò che maggiormente colpisce è la forte opposizione negli Stati Uniti, dove il Congresso, controllato dai repubblicani, si prepara a una dura battaglia per impedirne la ratifica. Il timore qui è che l’amministrazione Obama, nell’estremo tentativo di lasciare una propria legacy, sia disponibile a fare troppe concessioni a un partner ritenuto inaffidabile.

A questo riguardo, un attento osservatore della politica interna iraniana, Sohrab Ahmari, notava, in un recente articolo sul Wall Street Journal, che ci sono molte incertezze sulla tenuta dell’attuale leadership iraniana. Khamenei è stato recentemente operato per cancro alla prostata e ci sono avvertenze di possibili evoluzioni in senso più radicale per la sua successione.

Così sono state già presentate due proposte di legge: una darebbe al Congresso il potere non solo di ratificare o respingere l’accordo di Losanna, ma anche di modificarlo; l’altra prevede un’escalation delle sanzioni qualora non si raggiunga un accordo definitivo entro giugno. In entrambi i casi Obama ha dichiarato che, ove fossero approvate, porrà il veto. Parallelamente, però, sembra che, temendo un’intesa bipartisan contro l’accordo, stia cercando dietro le quinte una soluzione di compromesso che consenta al Congresso di monitorare il rispetto degli impegni presi dall’Iran senza poterne bloccare la ratifica.

A ben vedere, le motivazioni di tanta ostilità sembrano più di politica interna che collegate allo scenario internazionale. A meno di venti mesi dalle elezioni presidenziali, tutti si stanno posizionando per la sfida di novembre 2016: i repubblicani mirano a indebolire ulteriormente Obama e i democratici preferiscono comunque prendere le distanze da lui, visto ormai come un’anatra zoppa. I timori di un accordo al ribasso – voluto da un Presidente più interessato a sbandierare una vittoria diplomatica che al suo contenuto – pur comprensibili, sembrano però eccessivi. Non si può dimenticare che i negoziati si stanno protraendo da ormai 18 mesi e che al tavolo siedono i rappresentanti di altri cinque paesi con un’agenda e interessi affatto diversi. E comunque, la prospettiva del fallimento dei negoziati a questo punto sarebbe peggiore.

Al tempo stesso, proprio per superare i timori di opportunismo politico, è importante che gli Stati Uniti rafforzino la cooperazione con i principali alleati nella regione che oggi si sono sentiti traditi dall’apertura verso l’Iran. Con Israele, al di là delle polemiche dettate in parte dalle esigenze della campagna elettorale, un ravvicinamento è non solo possibile, ma necessario. Del resto, lo stesso Netanyahu ha riconosciuto nel suo discorso al Congresso che Israele può convivere con un accordo che pure non gradisce. Se Obama vuole dimostrare in quest’ultima fase della propria presidenza un’effettiva leadership internazionale, non deve dunque limitarsi a concludere l’accordo con l’Iran, ma deve anche ricucire il dialogo con Israele e rafforzare la collaborazione con l’Arabia Saudita.

Non è vero che sia meglio nessun accordo di un cattivo accordo, come dice Netanyahu. La conclusione del negoziato deve tuttavia essere visto come un punto di partenza e non di arrivo di un processo che mira a riportare gradualmente l’Iran sulla strada della cooperazione con la comunità internazionale anziché del confronto: “si vis pacem, para pacem“.

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

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