L’accordo Ue sul clima: una lezione di pragmatismo
30/10/2014 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Benché sembri raro di questi tempi, c’è un’Europa che sa imparare dai propri errori: quella che ha raggiunto, lo scorso 23 e 24 ottobre, il compromesso sul clima. Ed è a questo esempio che dovrebbe guardare l’Unione delle rigidità tedesche e dei tentativi, più o meno maldestri, degli altri paesi di sottrarsi al rispetto delle regole contabili. La discussione politica di questi giorni – con lo scambio di lettere tra Katainen e Padoan – ruota attorno allo sforzo di stiracchiare una coperta che ogni giorno appare più corta. Da un lato, il rispetto formale degli obblighi europei sulle politiche di bilancio, dall’altro, il protrarsi di una situazione recessiva che rende sempre più difficile far quadrare i conti. Quando le regole si dimostrano inadeguate a far fronte alle evoluzioni economiche o sociali, se non vengono prontamente cambiate, finiscono per essere ignorate. Troppo spesso, nel recente passato dell’Unione europea, è andata così e in parte l’impasse attuale ne è una conseguenza. Fortunatamente, ci sono anche casi nei quali l’Ue ha saputo adeguare obiettivi e strumenti al mutato contesto. È quanto si è verificato pochi giorni fa con la definizione dei target di riduzione delle emissioni di Co2 al 2030, il perno delle politiche europee dell’energia e del clima.

L’accordo non era facile e ha portato alla fine a un obiettivo di riduzione delle emissioni (40% in meno rispetto ai livelli del 1990) ambizioso ma non irraggiungibile. Ciò che più rileva è che a questo target vincolante – che sarà declinato anche con obiettivi specifici per ciascuno Stato membro – si aggiungono un obiettivo vincolante a livello europeo (ma non nazionale) sulla diffusione delle energie rinnovabili (che dovranno coprire il 27% dei consumi totali di energia) e un obiettivo ‘indicativo’ del 27-30% di miglioramento dell’efficienza energetica. Questi nuovi traguardi proseguono il percorso intrapreso nel 2009 con la definizione degli obiettivi per il 2020 (riduzione del 20% delle emissioni, rinnovabili al 20%, incremento dell’efficienza del 20%) che dovrebbe condurre alla quasi totale decarbonizzazione dell’economia nel 2050, quando è prevista una (forse velleitaria) riduzione delle emissioni tra l’80% e il 95%.

L’accordo di fine ottobre ha tuttavia riscosso più critiche che lodi: ha infatti scontentato il fronte ambientalista, che si aspettava un’ulteriore forte spinta in avanti “idealistica”, sulla scorta del citato pacchetto 20-20-20 che, nel momento in cui fu definito, appariva irrealistico. Ma non ha fatto neppure esultare quanti ritengono che – specialmente in questo periodo di crisi – le ragioni dell’ambiente vadano subordinate a quelle dell’industria, perché comunque tagliare le emissioni del 40% non sarà una passeggiata. Come sempre accade quando sono tutti scontenti, si può dire che l’Europa abbia trovato un ragionevole compromesso tra gli opposti interessi.

Per capire in cosa consista il compromesso bisogna fare un passo indietro. Oggi l’Ue ritiene più che raggiungibili i propri obiettivi per il 2020: infatti, gran parte della strada è già stata compiuta. Ma, per quanto le politiche del clima abbiano contribuito a migliorare la situazione, essa sarebbe ben diversa se in questi anni non ci fosse stata la recessione, a causa della quale il Pil europeo oggi è inferiore a quello del 2007. Ex post, insomma, il taglio del 20% sembra a portata di mano; ma ex ante era una scommessa tutt’altro che ovvia. Si era gettato il cuore ben oltre l’ostacolo. Del resto, lo stesso slogan con il quale il piano era stato presentato (20-20-20 per il 2020) dimostra quanto fossero rilevanti gli aspetti propagandistici. Inoltre gli strumenti che l’Europa si era data per raggiungere gli obiettivi prefissati hanno rivelato tutti i loro limiti: si pensi alle fantasiose proposte di riforma dell’Ets (il sistema di scambio dei certificati di emissione) o ai costi talora eccessivi dei sussidi alle energie rinnovabili.

L’accordo per il 2030 sembra invece molto più cauto. Al di là di una serie di concessioni alle richieste di alcuni Stati membri, esso si caratterizza per una sana dose di realismo. In primo luogo, è chiaro che lo scopo prevalente è tutelare l’ambiente (riducendo le emissioni), non fare politica industriale (promuovendo le fonti rinnovabili). In concreto, viene lasciato a ciascuno Stato membro (e al mercato) il compito di individuare la strada per ridurre le emissioni a più basso costo. Questa è una rivoluzione copernicana perché implica il venir meno dell’identificazione degli interessi delle istituzioni europee (“salvare il clima”) con quelli di alcuni attori del mercato dell’energia (i produttori di tecnologie rinnovabili). L’Europa sembra così aver ridimensionato la propria volontà di “pick the winners”, subordinandola alla più generale esigenza di raggiungere il risultato desiderato in termini di politica ambientale. Per inciso, questa è una conseguenza tra l’altro delle richieste di paesi quali Italia, Regno Unito e Polonia che per ragioni diverse avevano un interesse convergente a evitare derive “ideologiche” con ricadute pesanti per un tessuto industriale già indebolito dalla crisi. Prove tecniche dell’asse che da tempo auspichiamo?

La seconda ragione per cui l’accordo è improntato al realismo sta nel fatto che gli obiettivi per il 2030 – e il loro eventuale inasprimento – sono condizionati al raggiungimento di un accordo globale sul clima che possa coinvolgere anche i Paesi che non avevano alcun obbligo nell’ambito del protocollo di Kyoto (come Cina, India, ecc.) o che non hanno ratificato tale trattato (gli Usa). In altre parole, pur non volendo rinunciare alla propria leadership ideale (indicando agli altri paesi la strada della tutela dell’ambiente), l’Ue sembra pragmaticamente riconoscere che essere leader ha poco senso, se poi non ci sono follower. Naturalmente il piano al 2030 si espone ancora a molte critiche, ma il punto rilevante è che dietro di esso c’è un importante sforzo di raggiungere un risultato sostenibile, e non solo di sventolare una bandiera. Il pragmatismo unisce, il velleitarismo invece spesso finisce per dividere.

Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle

Prossimi appuntamenti

The European Business Code Project, Europa experience-Davide Sassoli, Piazza Venezia 6, Roma, 29 settembre 2023

I miei tweet

Seguimi su Facebook