Le due Italie che non si parlano
08/11/2013 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Dalla lettura dei giornali e dall’ascolto dei programmi televisivi si ha sempre più la netta sensazione che convivano in Italia due paesi distinti che parlano lingue diverse tra loro incomunicabili: da un lato il gergo della politica e dei chierici, dall’altro quello di tutti gli altri che lavorano, producono, pagano le tasse e, ormai da anni, soffrono gli effetti devastanti di una crisi apparentemente senza fine.

Si legge di quotidiane liti nel Pdl tra falchi e colombe, di caos tessere nel Pd in fase precongressuale, delle manovre per bloccare la decadenza annunciata di Berlusconi, della fiducia al Ministro Cancellieri, delle lotte intestine al M5S, delle rivalità all’interno della Lega, di scandali locali. Insomma la politique politicienne tiene sempre il banco e occupa le prime pagine dei quotidiani facendoci talora rimpiangere la mitica rubrica di Cuore “Chissenefrega”. Provate a fare un esperimento: su qualunque quotidiano, andate a cercare la prima “notizia” vera, che non sia riconducibile al “teatrino” della politica; poi contate il numero impressionante di pagine che avete saltato.

Paradossalmente, perfino quando si parla dei reali problemi economici del paese non sembra esservi alcuna visione di medio-lungo termine. Si dibatte solo di alchimie contabili per trovare i fondi necessari a far passare la nottata. Così negli ultimi mesi abbiamo letto di tasse prima abolite, poi sostituite, infine (forse) reintrodotte in un crescendo rossiniano di sigle e acronimi ostici anche agli addetti ai lavori. Lo stesso dicasi per detrazioni (abolite retroattivamente), possibili limature al cuneo fiscale, fantomatici tagli alla spesa che verrà, bonus alle università di eccellenza (che vengono prima pubblicizzati e poi spariscono nel nulla al punto che perfino i protagonisti ammettono di non aver capito cosa sia successo), ecc.

Alla luce di tutto ciò, nonostante i reiterati richiami del Governo all’ottimismo sui flebili segnali di ripresa, si rafforza sempre più la convinzione che il peggio non sia finito. Che la Troika (FMI, BCE e Commissione) sia dietro l’angolo. Oggi non c’è nemmeno più l’ottimismo della volontà (sia pure a mero scopo di marketing e comunicazione politica) di Berlusconi. Ci è rimasto solo il pessimismo della ragione. E invero, l’Istat ha appena tagliatole stime di crescita, e così pure la Commissione Ue, sollevando le proteste di un esecutivo sempre più isolato nel parlare di ripresa alle porte. Non solo, nelle ultime settimane alcuni noti editorialisti (Galli della Loggia in primis) hanno, con toni diversi, posto l’accento sulla crisi inarrestabile del nostro paese.

Questa può apparire come la “solita invettiva” che si inserisce nella scia dei molti interventi che, prima di noi, hanno denunciato la paralisi del sistema politico. Il punto è che, dietro tutte queste denunce, c’è un profondo senso di frustrazione nell’osservare un paese bloccato a discutere dell’inessenziale e incapace di prendere sul serio le sfide che l’Italia deve affrontare e che non può evitare.

Ciò tanto più perché quando, invece, si discute delle ricette economiche, sembrano esservi ampie convergenze tra tecnici e politici di tutti gli schieramenti. La riduzione dell’eccessivo carico fiscale, il taglio del cuneo fiscale, una seria spending review che incida sul funzionamento della macchina dello Stato, la potatura della miriade di incentivi pubblici alle imprese, il contenimento del debito pubblico con una nuova ondata di privatizzazioni, maggiori liberalizzazioni, interventi sulle pensioni medio-alte calcolate con il sistema retributivo, ecc. Nulla di nuovo perché basterebbe rispolverare la vecchia lettera della BCE dell’agosto 2011, il rapporto Giavazzi del 2012, le prime iniziative del Governo Monti, e così via.

La realtà è che tutto ciò non succede innanzitutto perché realizzare queste riforme presuppone un disegno politico di medio-lungo termine, mentre il governo naviga a vista tra uno stormir di fronde dei falchi e il fuoco amico di Renzi. E’ a tutti evidente che per fare una efficace spending review non basta nominare un tecnico di valore che tagli qualche ente inutile o qualche macchina blu. Bisogna riscrivere le modalità di funzionamento dello Stato e questo non si può fare in poche settimane. Peraltro, senza una forte volontà politica che lo supporti, qualunque proposta di riforma è destinata a restare sulla carta. Si ricordi il caso del taglio dei “tribunalini” che ha trovato ferme opposizioni a livello locale e richiese di rinvio in Parlamento.

Ma c’è anche una seconda ragione: adottare le riforme indispensabili vuol dire necessariamente scontentare qualcuno. E con le elezioni sempre dietro l’angolo, e una legge elettorale di per sé deresponsabilizzante, nessuno ha la forza di farlo. L’unica soluzione è adottare contemporaneamente diverse misure che finiscano per scontentare tutti (dimostrando che anche altre categorie sono colpite da analoghe misure) o comunque dimostrare che a fronte della perdita di taluni privilegi si avranno benefici di natura diversa, per esempio sul piano fiscale. In altri termini, occorre una controparte credibile che proponga un nuovo “contratto sociale”. Assumersi la responsabilità di queste difficili decisioni non comporta solo costi politici, ma anche opportunità. Se le riforme decise sortiranno gli effetti sperati, ci sarà un grande ritorno anche elettorale, come hanno rilevato empiricamente in un loro paper ormai classico Alesina, Perotti e altri. La leadership, di cui abbiamo tanto bisogno, è proprio questo. Benjamin Franklin soleva dire: “c’è un momento in cui dobbiamo decidere in maniera risoluta cosa fare, in caso contrario la deriva inesorabile degli eventi prenderà la decisione al posto nostro”. Quel momento è venuto.

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

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