Liberalizzazioni, chi ha paura del socio di capitale?
02/03/2015 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Il disegno di legge del governo sulle liberalizzazioni, presentato nei giorni scorsi, ha subito suscitato polemiche, paradossalmente più su ciò che ne è rimasto escluso che sui suoi effettivi contenuti. Non vale la pena scaldarsi tanto: di fronte a questi provvedimenti eterogenei, più del testo iniziale, conta quello che esce dal voto parlamentare, dove ci sono molte “manine” pronte a intervenire nell’ombra per preservare privilegi e interessi di pochi. Del resto, le categorie interessate non hanno tardato a far sentire la propria voce, evocando chissà quali cataclismi se il ddl dovesse essere approvato.

Per contrastare questi tentativi di annacquamento serve innanzitutto trasparenza, in modo da rendere evidenti i vantaggi economici che ne possono derivare ai cittadini. Ma serve anche molta fermezza. Non dimentichiamo che fu proprio il passo indietro di Monti nel negoziato con molte categorie toccate dal decreto sulle liberalizzazioni, in fase di conversione del decreto, a fargli perdere l’aureola di salvatore della patria, facendolo divenire un uomo di governo come gli altri, costretto a cercare compromessi in Parlamento. Per il momento siamo fiduciosi, data la determinazione dimostrata da Renzi in altri frangenti critici nei quali altri avrebbero certamente cercato mediazioni: da ultimo, con la legge sulla responsabilità dei magistrati. Potremo essere contraddetti dai fatti, ma ci piace pensare che il premier e il Ministro Guidi siano pronti a combattere fino in fondo, anche perché il ddl è stato preceduto da una lunga fase di dibattito, durante la quale – per coagulare il necessario consenso politico – diverse misure sono state abbandonate, come ha riconosciuto la stessa Guidi.

Entrando nel merito, anziché esaminare in modo generico il disegno di legge – dato il limitato spazio a nostra disposizione in questa sede – vogliamo concentrarci su una particolare riforma che tocca sia gli avvocati sia i farmacisti: la possibilità di svolgere la professione in forma societaria. A prima vista non sembra nulla di così rivoluzionario. Dopotutto, si tratta di attività aventi natura imprenditoriale. La ratio del provvedimento è palese: si vuole garantire una maggior concorrenzialità in due settori tradizionalmente ingessati dal forzato rispetto di norme ormai desuete. Il ddl, peraltro, si limita ad accordare la facoltà di svolgere la professione in forma societaria, ma ciascuno resta libero di farlo come meglio crede.

Nel caso delle farmacie, si vuole consentire la creazione di catene che possono certamente creare sinergie e risparmi che dovrebbero ricadere sui consumatori finali. Risparmi che, per inciso, avrebbero potuto essere ancora maggiori se si fosse permesso anche la vendita dei farmaci di categoria C nelle parafarmacie. Come prevedibile, gli interessati hanno immediatamente iniziato a lanciare strali contro la riforma che mette in crisi il modello tradizionale del farmacista-padrone, tacciandola di essere causa di ogni immaginabile disastro. Basti, tra tutti, menzionare i commenti del Segretario della Federazione degli Ordini dei Farmacisti Italiani, secondo il quale la legge addirittura faciliterebbe il riciclaggio di capitali, trasformando le farmacie in “lavanderie di contanti“. Non si vede peraltro, perché ciò dovrebbe accadere proprio con le farmacie quando esistono società di capitali per tutti gli altri settori merceologici.

Per gli avvocati non è la prima volta che ci si prova. Già la legge di stabilità del 2012 aveva introdotto una norma in materia che alla fine era stata cancellata per la forte opposizione della categoria. Per la verità, molti altri tentativi di apertura al mercato sono naufragati in questi anni. È prevalsa, infatti, una visione più tradizionale e chiusa della professione, arroccata in difesa delle prerogative di un tempo. La realtà è che in larga parte oggi gli avvocati in Italia hanno una dimensione troppo piccola, costi elevati, forte concorrenza e limitata specializzazione. L’arrivo di soci di capitale non è certo la panacea di tutti questi mali, ma potrebbe costituire un’opportunità per creare strutture più ampie, diversificare, aprire nuove sedi, dotarsi di strumenti tecnologici moderni, ecc. In molti casi, banche, assicurazioni e grandi società possono avere interesse ad avere uno studio che le assista, esternalizzando la funzione legale e creando così occupazione giovanile e nuovi percorsi di carriera. Non si dica che vi sarebbero conflitti d’interesse perché il disegno di legge chiarisce che anche le società sarebbero tenute al rispetto del codice deontologico forense. Del resto, la posizione del piccolo professionista dinanzi al grande cliente non è certamente di maggior forza di quella del socio in una società partecipata dal cliente.

Molto altro si potrebbe dire riguardo a queste moderate aperture al mercato. Ciò che però disturba è la persistente opposizione in nome del “piccolo è bello”. La realtà è esattamente il contrario. Purtroppo, nel nostro paese soffriamo di nanismo e spesso proprio per questo non riusciamo a competere con i nostri partner europei. Ciò vale per le imprese, ma anche per le professioni. Il mito romantico del professionista individuale è ormai superato. La battaglia contro le società di capitali è dunque una battaglia di retroguardia che manifesta la paura di avventurarsi in terre ignote, di esplorare nuovi assetti e nuove organizzazioni. È una difesa dello status quo in quanto tale. Il mondo cambia e deve cambiare anche la modalità di svolgere la professione. Darwin – che di queste cose se ne intendeva – soleva dire “non è la specie più forte che sopravvive né la più intelligente, ma quella più ricettiva ai cambiamenti”.

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

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