L’insostenibile complessità della semplificazione
04/04/2014 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Less is more” è una frase, resa celebre dal grande architetto Mies van der Rohe, a proposito del design minimalista. Il concetto sembra attagliarsi altrettanto bene all’ordinamento giuridico e al sistema burocratico del nostro paese. La loro complessità e farraginosità, ben fotografate da vari rapporti internazionali (per esempio Doing Business e World Governance Indicators), sono indubbiamente una delle principali ragioni strutturali dei bassi tassi di crescita del nostro paese.

Le imprese, infatti, non devono sostenere soltanto i costi espliciti del “sistema Italia” (le tasse e le eventuali rendite incorporate nei prezzi dei servizi) o quelli impliciti (la bassa qualità di molti servizi pubblici, la lentezza della macchina della giustizia, ecc.); devono pure sobbarcarsi i “costi di transazione” derivanti dalla necessità di interfacciarsi con una macchina pubblica incapace di produrre regole e procedure efficaci. Costi che, a loro volta, possono essere diretti (pago un professionista) oppure indiretti (impiego più tempo del necessario per rispettare tutti gli adempimenti richiesti). Numerose indagini hanno tentato di misurarne l’impatto. Se, per esempio, Confartigianato ha quantificato in 36 giorni lavorativi l’anno il costo della burocrazia, Confcommercio si è spinta oltre, evidenziando il nesso tra oneri amministrativi e mercato sommerso. Le nostre imprese sono particolarmente stuzzicate dall’illegalità proprio perché i costi di compliance con le norme sono spesso insostenibili. Che fare allora? In sintesi: da un lato, meno leggi, meglio scritte e più agevolmente conoscibili; dall’altro lato, procedure amministrative più snelle e agenda digitale.

Il tema è da tempo immemorabile oggetto non solo di dibattito pubblico, ma anche delle cure del legislatore. Risalgono, infatti, alla fine degli anni ’80 i primi interventi didelegificazione ovvero volti a delegare al Governo il potere generalizzato di emanare, al posto delle leggi, norme di rango secondario, per lo più regolamenti, la cui adozione è più snella e rapida. Dal 2008 al 2011 abbiamo avuto perfino un Dipartimento della Presidenza del Consiglio, sotto la guida di Calderoli, preposto alla semplificazione di leggi e regolamenti, con risultati talora esilaranti che hanno comportato un intervento d’urgenza per rimediare a taluni tagli improvvidi (quali quelli relativi all’istituzione di certi comuni e della stessa Corte dei conti). E oggi abbiamo una Unità per la semplificazione e la qualità della regolazioneche fa capo al Ministero della Funzione Pubblica.

Accanto alla delegificazione si è poi cercato di intervenire sul piano della semplificazione amministrativa (procedure della PA più efficienti, trasparenti e vicine ai cittadini). I due fenomeni, pur essendo concettualmente distinti, sono difficili da separare dal punto di vista pratico. Quali siano gli effetti di questa stratificazione di interventi “semplificatori“, lo ha rivelato l’indagine della Commissione parlamentare per la semplificazione, presieduta da Bruno Tabacci, i cui contenuti sono stati anticipati da un lungo e desolante articolo di Sergio Rizzo sul Corriere della sera: “se è vero che dal 1994 al 2008 a 5.868 misure di semplificazione hanno replicato 6.655 misure di complicazione, vale a dire 787 in più, sono servite a ben poco le norme successivamente varate nel tentativo di ridurre l’enorme macigno delle nostre leggi”.

Le ragioni dell’inefficacia di questi sforzi sono tante e complesse. Innanzi tutto, per troppo tempo, ci si è preoccupati più di abolire “leggi inutili” che di semplificare quelle veramente utili, per esempio predisponendo codici e testi unici di agevole comprensione. Le nostre leggi, infatti, sono scritte in modo indecifrabile ai comuni mortali. Ciò sia in conseguenza delle tecniche normative adottate, sia per l’abitudine inveterata di emanare decreti “omnibus” che regolano questioni per nulla correlate e che, per la loro attuazione, necessitano di decreti ministeriali o regolamenti che non arrivano mai. Occorre, dunque, un’opera, prima ancora che di semplificazione, di razionalizzazione. Si pensi, per esempio, al Codice del lavoro predisposto da Pietro Ichino: sessanta articoli brevi, facilmente traducibili in inglese e comprensibili, che potrebbero sostituire le migliaia di pagine della legislazione giuslavoristica in vigore.

Ma questo non è sufficiente: anche supponendo di riuscire a mettere sotto controllo lo stockdi leggi esistenti, è necessario limitare il flusso di norme di nuova emanazione. In qualche modo bisogna abbandonare l’idea, troppo diffusa nel nostro paese, che qualunque problema abbia come unica soluzione una legge (anzi una “leggina”). Più che una riforma, questo implica un cambiamento culturale: non otterremo mai semplicità, se con i nostri comportamenti quotidiani chiediamo complicazione. Tutto ciò innesca oltre tutto un circolo vizioso: la complicazione richiede continui interventi, i quali rafforzano la percezione di inaffidabilità che aleggia attorno al nostro paese, come hanno scritto Stefano Manzocchi e Fabiano Schivardi.

Infine, c’è il problema delle procedure: la macchina pubblica italiana continua a essere analogica in un mondo sempre più digitale. Di conseguenza i tempi e le modalità di lavoro della PA sono del tutto disallineati rispetto a quelli del mondo produttivo. Facciamo un esempio molto banale: uno di noi ha recentemente smarrito la carta d’identità. Per rinnovarla, ha dovuto fare la spola tra ufficio dell’anagrafe e comando dei carabinieri per trasmettere informazioni che, in realtà, sarebbero state teoricamente accessibili a entrambi. Il problema qui non sta nella pigrizia dei funzionari, ma nell’inadeguatezza delle procedure: il primo strumento di semplificazione, allora, è inevitabilmente l’Agenda Digitale.

In breve, la semplificazione finora è stata troppo uno slogan e poco una prassi. Soprattutto, gli interventi di semplificazione sono stati concepiti come revisioni “top down” di un sistema che invece va ripensato “bottom up“: non servono leggi di semplificazione, ma leggi scritte in modo più semplice, e forme di implementazione che siano coerenti coi tempi. Nulla è più complesso che semplificare e farlo con una legge – ci si perdoni il calembour – è una semplificazione insostenibile.

Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle

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