Ma la Grosse Koalition in salsa italica serve?
04/09/2013 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Tra poco e niente, è meglio poco. È quello che molti italiani hanno pensato quando è stato varato il governo di larghe intese. Certo, tutti avrebbero preferito un governo con una chiara Weltanschauung e un programma definito ma, visto come si stava evolvendo la situazione dopo le elezioni di febbraio, è sembrato che un governissimo, sotto l’autorevole e saggia guida, nel retroscena, del Presidente Napolitano, avrebbe potuto sopperire all’emergenza, avviando le riforme necessarie in attesa di tempi migliori per un nuovo round elettorale.

Del resto, le cose da fare (a partire dalle riforme richieste nella lettera della Bce dell’agosto 2011) erano, a detta di tutti, abbastanza evidenti e improrogabili per cui l’auspicio comune era che i tre partiti che componevano la strana maggioranza le realizzassero rapidamente. In fin dei conti i governi con larghe coalizioni servono proprio a questo: approvare riforme, necessarie anche se impopolari, condividendone la responsabilità dinanzi all’elettorato.

Gli esempi sulla scena internazionale, per quanto limitati, sono comunque significativi. Oltre alla celebre Große Koalition tedesca tra cristiano-democratici e socialdemocratici che nel 2005 portò alla Cancelleria Angela Merkel, ricordiamo in particolare la storica alleanza tra partito popolare e socialdemocratici in Austria che, nel dopoguerra, con poche e brevi interruzioni, ha governato il paese. Altri importanti esempi sono l’alleanza tra Likud e laburisti in Israele (dal 1984 al 1990 e ancora dal 2001 al 2003) e la c.d. “formula magica” che ha tenuto insieme i quattro principali partiti in Svizzera per quasi mezzo secolo.

Il collante che ha reso possibili questi governi era un patto di governo molto chiaro. Per esempio, nel caso della Coalizione tedesca, troppo spesso citata a vanvera, il voto di fiducia al Bundestag fu preceduto da settimane di serrati negoziati tra i due partiti nel corso dei quali fu convenuto un programma dettagliato e ambizioso che indicava, non solo le misure da adottare, ma anche la relativa copertura finanziaria.

Nel nostro caso, invece, quest’alleanza conclusa “controvoglia” si regge solo su vaghi accenni a riforme istituzionali, peraltro tutte da definire, e altrettanto generiche promesse di tornare a privilegiare la crescita, abbandonando la politica di austerity del governo Monti.

Su tutto incombe il fantasma della legge elettorale, che tutti sostengono di voler cambiare ma che nessuno sembra veramente intenzionato a toccare. Mentre a marzo si faceva a gara per rilevare le convergenze tra i partiti (noi stessi abbiamo partecipato al gioco) e addirittura pareva che le riforme dei saggi nominati dal Presidente fornissero le linee guida del programma, tutto è ben presto caduto nel dimenticatoio una volta formato il governo.

Ciascun partito ha pensato solo a occupare le poltrone ministeriali per poter meglio condurre la propria guerriglia pre-elettorale, sperando in cuor proprio di riuscire a ottenere, in termini di programma realizzato, più degli altri partiti per presentarsi avvantaggiato al prossimo voto. Il risultato, dopo quasi sei mesi, è sotto gli occhi di tutti.

Tra tutti, bastano quattro esempi lampanti: Imu, precari della Pa, privatizzazioni e riforme istituzionali. Che l’Imu fosse un cavallo di battaglia del Pdl era chiaro a tutti. Berlusconi, con il consueto populismo, ci aveva puntato fin dalla campagna elettorale. Eppure il Pd ha finto di ignorarlo, cercando fino alla fine di evitare di affrontare il problema o tutt’al più trasformando l’imposta, come in parte è accaduto, in un’altra tassa (lasciando ugualmente l’impressione di aver perso la propria battaglia con Berlusconi, che in termini di comunicazione è abilissimo).

Sulla “sanatoria” per i precari della PA, invece, il contentino è andato al Pd, nonostante le resistenze di Brunetta. Le privatizzazioni – auspicate da parte del governo e, almeno a parole, del centro-destra, sono state osteggiate da un’ala più radicale del Pd. In tema di legge elettorale e forma di governo, ognuno ha le proprie idee e temiamo, prima o poi, venga partorito un mostro, frutto di eccessivi e innaturali compromessi.

L’assenza di programmazione ha, però, ricadute anche peggiori in tema di finanza pubblica. Di fatto, giorno dopo giorno, abbiamo dinanzi agli occhi lo spettacolo di un governo che cerca di raschiare il barile per trovare il miliardo necessario (per la verità, ora ne servono almeno 4) per pagare il conto della negoziazione della sera prima, con un gioco che sempre più assomiglia a quello delle tre carte.

Prima si è eliminata un’imposta aggiungendone un’altra, ora si parla di rinviare l’incremento generalizzato dell’Iva, aumentando solo talune aliquote, ecc. Da qualche giorno è ritornata in auge anche la spending review che, però, a ben vedere non consiste di veri tagli, ma di riduzioni rispetto a incrementi di spesa tendenziali o di meri spostamenti di poste di bilancio da una parte all’altra. Come se una famiglia in gravi difficoltà finanziarie, anziché tagliare le spese correnti, si consolasse dicendo: “l’anno prossimo, però, non andremo in vacanza ai Caraibi”.

Purtroppo, questo andazzo non poteva durare a lungo, e infatti rischia di finire a giorni sotto le schermaglie politiche innescate dalla condanna di Berlusconi. La Grande Coalizione si è configurata subito – e si configura ovunque – come matrimonio d’interessi. Sfortunatamente, non erano gli interessi del paese, e se Palazzo Chigi non riuscirà a imprimere rapidamente una svolta, ottenendo chiari impegni dai partiti e prendendosene la responsabilità davanti agli elettori, tutto rischia di risolversi in un brutto divorzio.

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

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