Questa volta parliamo male dell’Europa
22/05/2014 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Siamo europeisti convinti, ma questa volta anche noi vogliamo parlare male dell’Europa. Riteniamo, infatti, che non si faccia un buon servizio all’Unione lasciando ai suoi denigratori a tutto tondo il monopolio delle critiche. Si finirebbe per stare sulla difensiva. Per far progredire la costruzione dell’Ue bisogna invece avere il coraggio di riconoscere apertamente anche ciò che non funziona sul piano strutturale e poi ripartire da lì. E ci riferiamo in particolare allo squilibrio tra gli Stati, alla prevalenza degli interessi nazionali, alla mancanza di politiche comuni dove veramente servono, all’accountability politica.

Non è perfetta l’Europa, lo sappiamo. Ma dividersi in modo manicheo tra detrattori assoluti dell’Unione alzando lamenti sull’Euro e sulle politiche di austerity e sostenitori fideistici ma ciechi, non serve a molto. Togliamoci dunque la benda dagli occhi e votiamo guardando a come costruire meglio la casa comune.

I privilegi tedeschi? Qualche punta di verità c’è. Per dirla con Orwell, “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”. Certo, un po’ di realpolitik ci vuole ed è ovvio che taluni paesi pesino più degli altri. Così del resto è sempre stato fin dalla firma dei Trattati di Roma nel ’57. Il problema è però che negli ultimi anni il divario si è accentuato per la fine dell’asse franco-tedesco (che per molti decenni aveva rappresentato la forza trainante dell’Unione), la contestuale crisi degli altri principali paesi (Italia, Spagna e la stessa Francia) e le sempre maggiori pulsioni isolazioniste del Regno Unito. Ancor di più ha nociuto che le stesse istituzioni europee abbiano di fatto avallato questa situazione. La crisi dell’eurozona, a ben vedere ha radici lontane che risalgono almeno al 2003, quando il Consiglio dei Ministri finanziari sospese la procedura per eccesso di deficit nei confronti di Francia e Germania, votando contro la proposta del Commissario Solbes di imporre maggiori risparmi ai due paesi, e accettando una dichiarazione d’intenti non vincolante. Una simile situazione, peraltro, si potrebbe ripetere oggi con il surplus delle partite correnti (saldo commerciale e dei movimenti di capitale) della Germania che per ora ha ricevuto solo un avvertimento dalla Commissione.

L’Europa è di tutti ma la crisi è solo tua. Con un gioco di parole intraducibile in italiano, Ambrose Bierce diceva che “l’amicizia (friendship) è una barca (ship) abbastanza grande da portare due persone quando c’è buon tempo, ma solo una quando c’è tempesta”. Non può sottacersi l’incapacità dimostrata dall’Unione in questi anni di far fronte in modo tempestivo e omogeneo alle crisi di alcuni Stati (Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Italia, Cipro) dell’eurozona. Dinanzi a situazioni gravissime, per troppo tempo sono prevalse le preoccupazioni egoistiche degli Stati membri di evitare il ricorso a fondi comuni per il salvataggio. Il messaggio che è passato ai più è che le virtuose “formiche” del nord dell’Europa non volevano usare i risparmi dei propri cittadini per pagare il conto delle “cicale” che avevano maturato un forte disavanzo e un elevato debito pubblicoLa realtà è più complessa e dovrebbe darsi conto anche della riluttanza (o incapacità sul piano politico) dei paesi in crisi a realizzare le riforme strutturali necessarie.

Insomma, ciascuna delle due parti ha fornito all’altra gli alibi di cui aveva bisogno, rendendo così più difficoltoso il raggiungimento di un equilibrio ragionevole. Così, mentre la crisi mordeva, si è inizialmente costituito un Fondo europeo di stabilità finanziaria (EFSF) – un’istituzione di diritto privato che si finanziava sui mercati con garanzia degli Stati membri – e solo dopo estenuanti negoziazioni è stato creato il Meccanismo europeo di stabilità (ESM) – un’istituzione internazionale il cui capitale è stato sottoscritto dagli Stati membri. Ma, per l’uomo della strada, se l’Unione non riesce a dare risposte tempestive a queste situazioni eccezionali a cosa serve? E la stessa situazione si è reiterata pochi mesi fa per l’Unione Bancaria, dove alla fine si è trovato un compromesso al ribasso che, per far fronte alle eventuali crisi, prevede l’istituzione di un fondo comune, alimentato dalle stesse banche, che nell’arco di una decina di anni dovrebbe raccogliere cinquantacinque miliardi. Sperando che bastino.

Gli immigrati arrivano in Italia, ma poi si spostano. L’Ue ha alimentato la sfiducia tra gli italiani, fornendo risposte inadeguate anche dinanzi a situazioni drammatiche che ci toccano da vicino come quelle dell’immigrazione che non possono essere affrontate efficacemente se non attraverso una politica comune, maggiormente solidale verso i paesi come l’Italia più esposti alle pressioni migratorie. Risposte che non possono limitarsi all’erogazione di fondi, ma devono prevedere, tra l’altro, il rilancio della cooperazione con i paesi di provenienza dei flussi e altri paesi terzi vicini per il controllo delle frontiere, lo scambio d’informazioni e il sostegno politico ed economico; il rafforzamento delle operazioni dell’agenzia Frontex; una migliore gestione integrata delle frontiere; politiche volte a favorire la migrazione legale.

Un sistema in panne. Da ultimo, il sistema istituzionale sembra essersi inceppato. La dialettica tra Parlamento e Commissione finisce spesso per annacquare e/o ritardare l’adozione dei provvedimenti, mentre nel Consiglio si cercano i compromessi al ribasso. L’impressione diffusa è di un sistema che non risponde a nessuno, ma solo a se stesso. Così le istituzioni spesso finiscono per concentrarsi sul micromanagement, con una regolamentazione talora eccessiva e di dettaglio che non affronta i veri nodi cruciali per la crescita da affrontare a livello comune (sicurezza energetica, liberalizzazioni, reti europee, fiscalità, ecc.).

Il consenso per troppo tempo è stato acquistato soprattutto con l’erogazione a pioggia dei fondi europei, ma come sopra evidenziato per la politica migratoria, ciò non basta più. Anche perché i fondi sono sempre meno e i paesi sono ormai 28: quindi una situazione di abbondanza si è ormai trasformata in una di scarsità. Per uscire dal guado, l’Europa deve mostrare di avere una visione sul proprio futuro e serve leadership per realizzarla.

Le elezioni del 25 maggio sono un’occasione imperdibile per affrontare questi problemi strutturali, senza perdersi nella retorica dei benefici dell’Europa e del mercato interno.

 Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

Prossimi appuntamenti

The European Business Code Project, Europa experience-Davide Sassoli, Piazza Venezia 6, Roma, 29 settembre 2023

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