Sul Trattato di libero scambio confrontiamoci sui fatti, non sulle ideologie
23/06/2015 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Pochi giorni fa il Parlamento europeo ha rinviato il voto nel quale l’assemblea plenaria avrebbe dovuto dare le proprie raccomandazioni in merito al TTIP (il Trattato di libero scambio in discussione tra Unione europea e Stati Uniti). Avvalendosi di una norma procedurale raramente usata, il Presidente Martin Schulz ha rinviato il testo in Commissione, dato l’elevato numero di emendamenti (116) proposti, per evitare l’imbarazzo di un voto sfavorevole. Merita dunque chiedersi per quali ragioni il TTIP incontra tanta ostilità in ambienti assai diversi e di opposto orientamento politico.

Risulta difficile, infatti, afferrare il senso di una contrarietà apparentemente così diffusa, che nel nostro paese sembra coalizzare un fronte che va da Susanna Camusso a Matteo Salvini, passando per Beppe Grillo. Generalmente la risposta fornita fa riferimento a una serie di preoccupazioni piuttosto vaghe: si dice che il TTIP possa mettere in discussione la sovranità nazionale, che possa pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi ambientali, che metta sotto schiaffo le tutele dei lavoratori, ecc… Eppure, la maggior parte di queste argomentazioni viene meno non appena il dibattito scende in profondità. Esse appaiono, infatti, più argomentazioni retoriche e spesso apodittiche che preoccupazioni fondate su fatti precisi circostanziati.

Prendiamo, per esempio, uno degli aspetti più controversi: le famigerate clausole Isds (Investor-State Dispute Settlement) consentirebbero all’investitore straniero che ritiene di essere stato illegittimamente pregiudicato di chiamare in giudizio lo Stato di sede in un arbitrato internazionale anziché essere costretto a promuovere l’azione nei tribunali nazionali (che potrebbero essere più “sensibili” alle ragioni del proprio governo). Chi si oppone a queste clausole vi vede una sorta di grimaldello per limitare la sovranità degli Stati che non sarebbero più liberi di adottare le politiche che ritengono più appropriate e quindi, addirittura, un vulnus alla democrazia. A ben vedere, però, più che i contorni del paventato Stato Imperialista delle Multinazionali si osservano i tratti più consueti dello Stato di diritto. Tali clausole non fanno altro, infatti, che consentire di dirimere la controversia in una sede neutrale.

Peraltro già così avviene sulla base di migliaia di trattati bilaterali ed esiste perfino una Convenzione internazionale che disciplina questi arbitrati tra investitori privati e Stati conclusa sotto l’egida della Banca mondiale. Ironicamente, nella maggior parte dei casi la questione si risolve a favore dello Stato: per esempio, dei 356 casi che si sono conclusi nel 2014, il 37% ha avuto esito favorevole ai governi, il 25% agli investitori, e nel 28% le parti si sono accordate. Le clausole non solo non hanno prodotto le conseguenze disastrose che vengono ipotizzate, ma hanno anzi contribuito a creare un clima di fiducia che si è tradotto in maggiori investimenti, crescita e occupazione. Insomma, nel nostro caso gli oppositori sembrano sostenere la tesi singolare che va bene che gli altri paesi si sottopongano alla giurisdizione arbitrale per le cause promosse dagli investitori occidentali, ma non i nostri paesi dove per definizione la giustizia impera.

Molte altre contestazioni sono basate su informazioni inesatte. A dispetto di quanto molti credono, non si cerca di limitare la libertà degli Stati (e dell’Ue) di adottare normative rigorose in materia di ambiente e lavoro. Piuttosto, si prevedono dei vincoli alle modalità in cui esse possono essere applicate. L’idea sottostante è che debbano essere evitate le misure discriminatorie o comunque suscettibili di colpire in modo asimmetrico operatori nazionali e stranieri. In altre parole, i principi che ispirano queste normative sono quello di non discriminazione e di parità di trattamento: produttori e prodotti simili devono essere trattati in modo simile, a prescindere dalla loro provenienza.

Se ci pensiamo bene, la stessa costruzione del mercato interno nell’Unione europea ha comportato l’abolizione non solo delle barriere doganali, ma anche delle restrizioni quantitative e delle misure aventi effetto equivalente, oltre che delle imposizioni fiscali discriminatorie. Abbiamo fatto ben più di stipulare un gigantesco trattato di libero scambio: abbiamo anche dato reciproco riconoscimento alle normative nazionali e adottato molte politiche comuni. Sarebbe difficile, oggi, negare che l’integrazione dei mercati europei abbia prodotto benefici immensi, sia in termini monetari, sia in termini dinamici di promozione dell’efficienza e ampliamento della libertà di scelta dei consumatori. Rovesciando il paragone, strumenti come il TTIP sono finalizzati ad avvicinare le due principali zone economiche, mettendo consumatori e produttori nella condizione di scambiarsi più agevolmente beni e servizi. Non è più, come nel passato, una questione di dazi, quanto piuttosto di utilizzo talvolta opportunistico della normativa: serve pertanto ridurre gli ostacoli di natura non tariffaria.

È paradossale che l’opposizione a questi trattati sia raramente fondata su basi pragmatiche e concrete, ma si ritrovi più spesso nell’opposizione apodittica a ogni forma di apertura e integrazione reciproca. Dietro agli slogan a effetto su temi delicati quali la protezione dei lavoratori e l’ambiente (che peraltro appaiono poco convincenti nel caso di specie, dato che sia l’Ue sia gli Usa sono aree sviluppate e caratterizzate da standard simili in molti ambiti), si nascondono piuttosto pregiudizi anti-mercato e anti-globalizzazione. Dietro una parvenza di sofisticazione, insomma, l’avversione al TTIP è principalmente politica, e proprio per questo risulta difficile da contrastare su un terreno tecnico. Piuttosto, in una fase storica segnata dal ritorno dei nazionalismi, le politiche di apertura – commerciale ma non solo – hanno una valenza che va molto al di là del loro obiettivo immediato.

Per la stessa ragione, tornando alla domanda iniziale, se si vuole criticare (e migliorare) il TTIP, cosa più che legittima, lo si faccia norme alla mano, anziché sulla base di assunti ideologici. Insomma, il Trattato potrà essere migliorato, ma attenti a non buttare il bambino con l’acqua sporca. Per citare Siddartha: “Le dottrine non contano nulla per me: non sono né molli né dure, non hanno colore, non hanno spigoli, non hanno odori, non hanno sapori, non hanno null’altro che parole”. Parliamo di cose, anziché di parole.

Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle

Prossimi appuntamenti

The European Business Code Project, Europa experience-Davide Sassoli, Piazza Venezia 6, Roma, 29 settembre 2023

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