Trump, l’apprendista stregone che fa tornare indietro l’America
13/01/2016 di Alberto Saravalle.

A poche settimane dal voto in Iowa (si parla del 1° febbraio) e delle primarie in New Hampshire (probabilmente il 9 febbraio), l’America si trova giocoforza a confrontarsi col fenomeno Trump, che gran parte dei commentatori inizialmente aveva preso sottogamba. Del resto che le élite intellettuali spesso prendano degli abbagli di fronte ai candidati populisti non è una novità: accade regolarmente su entrambi i versanti dell’Oceano Atlantico. Per esorcizzare il rischio del populismo occorre anzitutto comprenderne le ragioni.

I principali commentatori (e l’establishment del Partito repubblicano) davano per scontata una rapida scomparsa dall’agone di questo candidato sui generis. Così non è stato. In ogni pubblico dibattito Trump si è dimostrato indifferente alle critiche ricevute, rilanciando con affermazioni sempre più irriverenti e spregiudicate, talora oltre il limite dell’offensivo, e raramente tali da configurare un credibile programma politico: dal divieto d’accesso negli Stati Uniti ai musulmani alle ingiurie sessiste a Hillary fino ai dazi al 45% contro le importazioni dalla Cina. Ma si sa, nelle elezioni moderne vale il detto “non m’importa di come parlino di me, basta che ne parlino”. E, almeno per ora, i sondaggi sembrano dare ragione al magnate delle costruzioni.

Nel grigiore generale, Trump è infatti emerso come l’unico candidato che dice effettivamente ciò che pensa senza timori. In un mondo nel quale l’antipolitica ha un seguito crescente, è così riuscito a caratterizzarsi come l’unico “non politicante”, un genuino campione della gente. Tenendo conto che il candidato democratico sarà quasi certamente Hilary Clinton, per definizione espressione della politique politicienne, si può comprendere l’appeal che Trump possa avere per chi non crede nel sistema e ha sfiducia in Washington. Del resto, Trump non sarebbe il primo a vincere giocando questa carta. Un ex lottatore professionista (Jesse “The Body” Ventura) riuscì infatti a farsi eleggere governatore del Minnesota nel 1998 dopo aver rilasciato un’intervista provocatoria a Playboy nella quale attaccava apertamente la religione. Il risultato stupefacente è che gli elettori, pur non condividendone le opinioni, lo premiarono preferendo la sua apparente onestà intellettuale alla supposta ipocrisia dei suoi avversari.

C’è un’ampia parte della popolazione, specie nel sud e nel nord industriale, poco colta, arrabbiata e impoverita che si ritrova nel gergo di Trump e ne condivide gli attacchi al pensiero comune imperante. Si noti che le boutades di Trump non si limitano a prendere di mira gli eccessi del politically correct, che una fascia crescente della popolazione anche appartenente a settori “liberal” dell’establishment ormai mal sopporta, ma hanno un contenuto becero e spesso discriminatorio che riporta indietro il paese di almeno un trentennio se non di più. Benché i risultati stupefacenti finora registrati da Trump nei sondaggi abbiano costretto più volte tutti i commentatori a rivedere le previsioni iniziali, i principali opinionisti continuano a cercare le debolezze della sua campagna. Taluni scrivono che nonostante i suoi rallies siano i più frequentati, la sua macchina politica non è sufficientemente oliata e non è in grado di trascinare il pubblico al voto (“piazze piene urne vuote”, si direbbe qui da noi).

Altri hanno scritto che Trump in molti casi attira elettori che non sono registrati con il Partito repubblicano, ma democratico (il che limita le sue possibilità di successo nelle primarie, dato che solo gli elettori registrati con il partito possono votare). Certamente c’è del vero in entrambe le affermazioni, ma non è sufficiente a escludere il rischio di un effetto valanga dopo le prime affermazioni elettorali. Tant’è che nelle scorse settimane, per la prima volta i leader del Partito repubblicano si sono confrontati con il rischio di una National Convention (che si terrà a Cleveland tra il 18 e il 21 luglio) senza un netto vincitore a priori (l’ultima volta era accaduto nel 1976 quando Reagan sfidò il presidente in carica Ford). Si è così parlato di una “Brokered Convention“, perché secondo le regole elettorali del partito, se nessuno prevale al primo scrutinio, i delegati non sono più tenuti a votare per il loro candidato e si apre una sorta di mercato con trattative sotto banco. Certo non un bello spettacolo. Qualcuno pensa che in tale scenario, il vincitore che potrebbe emergere dalla Convention sia il nuovo speaker della House of Representatives, Paul Ryan, uomo apprezzato per la sua capacità di mediare le diverse anime del Partito repubblicano.

Alla fine per molte ragioni è presumibile che Trump non riesca a giungere alla nomination, ma il danno è già stato fatto. Come un apprendista stregone che evoca forze poi incontrollabili, la sua campagna elettorale sta dando voce a delle posizioni inaccettabili che, grazie a lui, stanno trovando legittimità nel panorama politico statunitense e costringono anche gli avversari a giocare, almeno in parte, sul suo terreno. Il timore, insomma, non è che vinca, ma che non sia una meteora come altri candidati indipendenti (da Ross Perot a Ralph Nader). Il risultato potrebbe essere un Partito repubblicano trascinato su una deriva populista e sempre più reazionaria. Verrebbe così meno una seria alternativa al Partito democratico in grado di condizionarne le politiche in modo costruttivo. Insomma con Trump non perde solo il Partito repubblicano, ma tutta l’America, perché si perde quell’equilibrio politico virtuoso dettato dalla competizione per il voto dell’elettore mediano.

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

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