Una sola parola: riforme!
21/04/2015 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Quando il celebre fisico e premio Nobel danese Niels Bohr disse che “è difficile fare le previsioni, specie sul futuro”, certo non pensava alla politica italiana, ma è proprio qui che oggi trova plateale conferma la saggezza di questo paradossale aforisma.

Ben pochi, per esempio, avrebbero scommesso su una lunga durata dell’attuale legislatura, dopo il risultato inconcludente del voto nel 2013. Ancora meno lo avrebbero fatto dopo l’avvento con un colpo di mano di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, immaginando che sarebbe iniziata una guerra di logoramento del nuovo premier culminata, di lì a qualche mese, con una resa dei conti tutta interna al partito democratico.

Eppure, nonostante la complessità del nostro quadro politico, sembra che si sta andando nella direzione di un governo di legislatura (o quasi): la rottura della minoranza del Pd sulla legge elettorale, con le dimissioni del capogruppo alla Camera Speranza, conferma questa ipotesi.

Benché nei palazzi della politica si parli solo di questo, il cuore della questione non è più il merito delle riforme istituzionali fortemente volute da Renzi – l’Italicum e la trasformazione del Senato. A questo punto, più che in molte altre battaglie (dalla nomina della Mogherini al Jobs Act), il premier “ci ha messo la faccia” per cui il pacchetto, nel suo complesso, deve essere approvato (pur con qualche concessione al dibattito parlamentare). Se si andasse al voto col consultellum non sarebbe solo Renzi a perderci in credibilità, ma l’intero paese. Dopo aver promesso ai nostri partner in Europa che avremmo finalmente rimediato alla malattia endemica del nostro paese dell’incapacità di decidere e che dalle prossime votazioni sarebbe uscito un Parlamento tale da garantire governabilità e soprattutto l’effettività delle decisioni, sarebbe l’ennesima prova che nulla è cambiato e l’Italia continua a essere un paese inaffidabile.

Ora, se davvero lo scenario che ci troviamo di fronte è quello di una legislatura che si allunga, perché non può concludersi prima della chiusura del dossier istituzionale, è essenziale che il Governo riempia di contenuti il tempo che ha davanti. In questo senso anche gli editoriali di Alesina e Giavazzi che dalle pagine del Corriere della Sera accusano Renzi ora di scarso coraggio ora di aver perso lo slancio rifomista. Tanto più a lungo avrà governato, quanto più sarà valutato per ciò che ha realizzato, non per quello che ha promesso.

Con un’opposizione pressoché inesistente a poco varrebbe la solita esimente, tanto cara a Berlusconi, “io avrei voluto fare di più, ma loro (chi?) me l’hanno impedito”. Anche perché è chiaro che qui il “loro” si riferisce prevalentemente all’opposizione interna al partito e questo non è accettabile dagli elettori.

D’altronde, “fare” è necessario per ragioni esterne ancor più che per quelle interne. Il repentino aumento dello spread negli ultimi giorni e la divaricazione tra le previsioni di crescita 2015 del Tesoro (0,7%) e del Fondo monetario internazionale (0,5%) confermano che, nonostante i trionfalismi, l’Italia si trova ancora in un terreno fragile, mentre la situazione internazionale è ancora estremamente confusa (in particolare per le incertezze sulle sorti della Grecia).

Quali che siano i corretti dati sulla crescita attesa, è indubbio che l’Italia non riesce ancora ad agganciare una ripresa sostenuta. E senza ripresa, i tempi di recupero dei danni inferti dalla crisi saranno lunghissimi, e soprattutto continuerà a gravare su di noi l’incognita della sostenibilità del debito sovrano. Non è, infatti, realistico immaginare un rapido percorso di riduzione del rapporto debito/Pil senza una decisa espansione del denominatore.

Tutto, allora, si gioca sul versante delle riforme. Quali? Per quanto ci si possa girare intorno, l’Italia resta ancorata alle esigenze individuate nella fatidica lettera della Banca centrale europea dell’agosto 2011: occorre mettere in moto la dinamica della produttività totale dei fattori modernizzando l’intero sistema paese.

Non è un caso se il favore di cui oggi Renzi indubbiamente gode in Europa è figlio della sua capacità di sfatare il tabù del mercato del lavoro, mantenendo la promessa di adottare il Jobs Act. Ma questo non può bastare: ed è per tale ragione che il Programma nazionale di riforma (Pnr) – ormai il principale documento governativo, perché rappresenta il “libro di testo” sul quale il nostro paese sarà esaminato – allegato al Def, insiste molto sui soliti temi sui quali peraltro la Commissione ci richiama costantemente. Innanzitutto, la concorrenza – addirittura con l’annuncio del Ddl annuale 2016 all’indomani del varo del Ddl Guidi per il 2015 – e poi la riforma della scuola, quella della PA e della giustizia, lo stimolo all’innovazione e, da ultimo, ma certo non meno importante, il “convitato di pietra”, cioè la spending review (rispetto alla quale il Pnr si sofferma in particolare sui servizi pubblici locali e sugli incentivi alle imprese). Insomma, come nel film Il Laureato, al giovane Dustin Hoffman che si interrogava sul proprio futuro, la risposta fu “Una sola parola. Plastica“, per il nostro giovane premier, la sola parola è “Riforme”.

L’Unione europea è una sorta di club che si basa su regole rigide, ancorché applicate in modo abbastanza flessibile. E la flessibilità dipende in misura prevalente dalla credibilità del paese nel seguire un percorso di modernizzazione, magari lento, ma costante e privo di ambiguità. Questo percorso l’Italia ha iniziato a seguirlo negli ultimi anni, ma non di rado seguendo le vie tortuose e lanciando segnali contrastanti. Il merito di Renzi è di aver impresso un’accelerazione, almeno su alcuni fronti.

Il problema è che ai nostri partner non è chiaro quanto questo merito sia frutto di risultati effettivamente conseguiti e durevoli, e quanto sia invece artificio retorico o, comunque, azzoppato dalle storiche deficienze del nostro paese nell’implementazione delle misure (e non è un caso se l’Ocse, nel più recente rapporto sull’Italia, batta proprio su questo chiodo).

Il che ci porta a chiudere il cerchio: al di là di ogni sforzo e buona volontà, l’Italia paga un tributo immenso alla farraginosità dei processi decisionali. La risposta di Renzi a questo problema è quella delle riforme istituzionali. Possono piacere o no, ma rappresentano indubbiamente un passo concreto verso la soluzione del problema di fondo. I testi possono certo essere migliorati, ma non si parli di attentato alla democrazia. La vera sfida è casomai di produrre emendamenti praticabili e non finalizzati solo ad azzoppare la riforma.

Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle

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