Agosto, governo mio non ti conosco
21/08/2013 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

“Non credo che altrove succeda qualcosa, succede tutto qui” diceva Flaiano. Forse è vero per undici mesi all’anno, ma non in agosto. Del resto, basta smettere di leggere i giornali per qualche giorno di vacanza e, al rientro, ci si rende conto che nulla veramente è cambiato nel frattempo. In assenza del giallo dell’estate, che normalmente polarizza le discussioni sotto l’ombrellone, quest’anno il dibattito ha riguardato soprattutto Berlusconi e il futuro del centrodestra in Italia.

Abbiamo letto molte, più o meno dotte, analisi che ribadiscono come l’avvento di Berlusconi abbia impedito il formarsi di un partito liberale o conservatore di stampo europeo. Ci sono state ricordate le molte promesse di un’Italia più liberale tradite in questo ventennio. Abbiamo sentito le ipotesi di nuove aggregazioni politiche per raccogliere l’eredità di Berlusconi, con troppi pretendenti e nessun vero leader. In sintesi, rovesciando la premessa di D’Alema del 1995, l’esigenza da tutti sentita è di fare dell’Italia “un paese normale”.

Ebbene, la sensazione è che tutti questi ragionamenti siano quantomeno prematuri. Si sta vendendo la pelle dell’orso prima di averlo ucciso. Non solo. A ben vedere, gli stessi “cacciatori” non sono messi molto meglio: il Pd è dilaniato e pensa solo al prossimo congresso, Scelta Civica è allo sbando ed è solo un simulacro del partito europeo che Monti aveva immaginato e il Movimento 5 Stelle sta perdendo la verve e si comincia a rendere conto che stare in Parlamento è molto più difficile che gridare in piazza e scrivere blog.

Dobbiamo rassegnarci a convivere con questa strana maggioranza, a prescindere dalla sentenza della Cassazione. Tanto vale cercare di approfittarne per ottenere il massimo, nell’interesse del paese. Come avevamo scritto al suo esordio, il governo Letta è “as good as it gets” – e qualunque prospettiva elettorale appare assai più rischiosa dello status quo, specie se il Parlamento non riesce a partorire una riforma delle legge elettorale per superare le assurdità del Porcellum.

Assuefatti dall’aria vacanziera, confortati dal calo dello spread e illusi dai timidi segnali di ripresa, il rischio è che ci dimentichiamo che ci sono importanti partite – decisive per il futuro dell’Italia – che attendono di essere giocate in autunno. Vediamo di che si tratta.

Innanzitutto c’è la questione dell’Imu che dev’essere risolta nelle prossime settimane. A nostro avviso – diciamolo a chiare lettere, per evitare malintesi – è sbagliato sprecare risorse per ridurre la fiscalità sulla casa. Molto meglio sarebbe utilizzare i pochi fondi a disposizione per ridurre il costo del lavoro, a partire dall’IRAP, per creare nuova occupazione e sanare l’anomalia di un cuneo fiscale tra i più alti al mondo. Nondimeno, non si può pensare di stare al governo con il PdL e fingere di ignorare che questo partito ha stretto un patto con i propri elettori che prevede al primo posto dell’azione di governo l’abolizione di questa tassa quantomeno sulla prima casa.

Pensare dunque di evitare, con artifizi (magari inglobando Imu e Tares in un’unica service tax) di affrontare il problema è illusorio. Piuttosto, meglio affrontarlo di petto negoziando l’abolizione dell’Imu a fronte di altre riforme assai più importanti (ad es: la legge elettorale, talune liberalizzazioni osteggiate dai gruppi di interesse che fanno capo al PdL, ecc.). Ma il problema politico di fondo è che il Pd non ha ancora mostrato quali sono le proprie carte. O meglio quali siano le riforme strutturali che vorrebbe, a ogni costo, adottare: in altre parole, per mantenere in piedi il governo i democratici dovranno con ogni probabilità concedere l’Imu a Berlusconi. Ma, in cambio, cosa vogliono? Se non c’è chiarezza (interna al partito, innanzitutto) su questo punto, qualunque negoziato è impossibile.

Il secondo tema di cui si è parlato all’inizio dell’estate, ma che poi è passato in sordina, è quello delle privatizzazioni. Dopo le prime aperture di Saccomanni e i grandi (e fumosi) progetti di Brunetta è arrivato il niet di Fassina e non se n’è più parlato. Anche in questo caso, non è un problema marginale e ineludibile. Le privatizzazioni servono non solo per cominciare a ripagare l’ingente debito che grava sul paese, ma anche per dare credibilità e respiro alla nostra finanza pubblica e creare più mercato in Italia.

Perfino Moretti, l’amministratore delegato delle Ferrovie, parlando al Meeting di Rimini si è dichiarato pronto a questa eventualità. Occorre però che si proceda senza ondeggiamenti e senza furbizie, individuando tempi, modi e società target e comunicando il tutto con chiarezza al mercato (incluse eventuali riforme necessarie ad aprire i mercati, per evitare di trasformare monopoli pubblici in privati).

La terza grande partita è quella del credito. Le banche continuano a non erogare finanziamenti soffocate dalle sofferenze e ciò ostacola la crescita. A questo riguardo, sembrerebbe che il governo intenda usare la Cassa Depositi e Prestiti per garantire delle obbligazioni bancarie che dovrebbero raccogliere fondi sufficienti a rilanciare l’offerta di credito. Il rimedio appare del tutto inadeguato e, com’è stato detto, potrebbe avere un effetto perverso, inducendo le banche ad assumere rischi eccessivi.

Poiché non si è voluto chiedere l’aiuto all’Europa per creare una bad bank, l’unica soluzione è la ricapitalizzazione che però comporterebbe in molti casi la perdita del controllo da parte delle fondazioni bancarie. I problemi però non si risolvono mettendo la polvere sotto il tappeto; prima o poi ci si finisce per inciampare.

Il catalogo delle riforme di natura economica solo annunciate e da realizzare in autunno potrebbe continuare e sarebbe assai lungo. Tra tutte, basti ricordare il programma “Destinazione Italia” per attirare investimenti esteri e i decreti delegati da approvare sulla base della delega fiscale che dovrebbe avere l’ok dal Parlamento a settembre. È tempo di passare dalle parole ai fatti. Per dirla con il sommo poeta, presidente Letta “qui si parrà la tua nobilitate“.

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

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