Debiti della Pubblica amministrazione: a pagare e morire c’è sempre tempo
11/07/2013 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

È difficile trovare una vicenda altrettanto rappresentativa dei problemi italiani quanto quella del debito commerciale accumulato dalle pubbliche amministrazioni: regole contabili arcaiche, bilanci delle amministrazioni poco trasparenti, negligenza dei funzionari, asimmetrie tra le regole applicabili alla PA e ai privati, lentezza dei processi decisionali, indifferenza della politica.

Tutto ciò causa un circolo vizioso. Le imprese chiudono, le banche accumulano sofferenze che impediscono di erogare nuovo credito e quindi altre imprese falliscono. Per non dire dei connotati tragici che queste vicende, sempre più spesso assumono, come evidenziato dall’alto tasso di suicidi degli imprenditori in questi anni. Tutti ne parlano da mesi, eppure nulla è successo. Perché? Quali sono le soluzioni tecniche in discussione?

Che impatto possono avere sulla situazione italiana, anche alla luce del nuovo downgradedell’Italia da parte di S&P? E fino a che punto è utile risolvere la questione dell’arretrato, se vi è un continuo flusso che va a ingigantirne l’entità? In tal senso, gli ultimi dati presentati da Ance sono preoccupanti: nel 2012, i tempi medi di pagamento agli edili si sono allungati, raggiungendo la durata record di 235 giorni.

L’aspetto più paradossale è che, ancor oggi, le stesse amministrazioni interessate non sappiano con precisione chi debba quanto a chi. Si parla di uno stock di €70-80 miliardi, ma c’è chi sostiene che la cifra reale sia prossima, o superiore, a €100 miliardi. Il principale problema non è, tuttavia, l’incertezza sull’aggregato, ma quella sulle singole fatture che lo compongono.

Una delle principali ragioni per cui la faccenda ha assunto queste dimensioni, infatti, è che la PA è costretta a rivolgersi a certificatori esterni per verificare le fatture presentate alle migliaia di enti coinvolti. Tutto ciò deriva dall’adozione di standard contabili differenti per la PA che ne rendono opachi i bilanci. Basti dire che da alcuni anni è in corso un censimento degli immobili degli enti locali e che non è ancora stato possibile avere una risposta esauriente.

La normativa vigente consente di contabilizzare solo per cassa (e non per competenza) le spese in conto capitale. Ciò spiega l’effetto dei pagamenti sul deficit (oltre che sul debito pubblico) che si avvicinerebbe pericolosamente al tetto del 3% rispetto al Pil. Il risultato è che le Amministrazioni non hanno puntualmente registrato i debiti e ora sono in affanno a comunicare le fatture scadute (qui e qui).

Com’è prevedibile, l’opacità favorisce le truffe: quante delle fatture presentate al pagamento sono veritiere, quante sono gonfiate e quante si riferiscono a lavori non necessari? E come distinguere le maggiorazioni dovute a comportamenti illegittimi delle parti da quelle dovute al semplice fatto che i fornitori scontano, nel quantificare i propri servizi, l’incertezza sui tempi e le modalità di pagamento?
C’è poi un aspetto finanziario non trascurabile alla base dei ritardi.

Il governo si è impegnato a pagare una prima tranche di 40 miliardi di euro da qui al 2014, corrispondenti a più di un punto di Pil l’anno. Data l’attuale congiuntura, non è una manovra priva di effetti sul bilancio pubblico, sia per la sua contabilizzazione e le conseguenze sui parametri europei, sia per reperire la liquidità necessaria. A questo proposito sono state avanzate diverse proposte.

Alcuni suggeriscono di seguire l’esempio della Campania che ha proceduto a una cartolarizzazione dei crediti, a fronte della quale i creditori rinunciavano a parte del valore facciale del credito stesso e agli interessi di mora. Di fatto si tratterebbe di un default sul debito commerciale (senza peraltro far uscire il debito dal consolidato dello Stato). Vista la cifra di cui stiamo parlando, sarebbe un pessimo segnale ai mercati (al di là delle valutazioni sull’opportunità di una simile misura).

Astrid vede piuttosto nelle banche commerciali lo strumento cardine: lo Stato dovrebbe garantire i crediti delle amministrazioni, in modo da favorirne l’acquisto da parte delle banche (senza impatto sul loro coefficiente patrimoniale dal momento che lo Stato diverrebbe il debitore), le quali a loro volta potrebbero cederli – in caso di difficoltà – alla Cassa Depositi e Prestiti, che a sua volta potrebbe utilizzarli come collateral per ottenere liquidità dalla Bce.

Luigi Zingales a suo tempo aveva invece parlato di una manovra analoga senza l’intermediazione bancaria, ricorrendo immediatamente alla CDP a cui sarebbe spettato l’onere del pagamento. Quest’ultima idea non è convincente in quanto le risorse della Cdp derivano in larga misura dalla raccolta postale: è lecito impiegare i soldi dei risparmiatori per finanziare spese pregresse di altri enti?

Queste proposte, sembrano tutte cercare delle alchimie per far sì che le Pubbliche Amministrazioni smaltiscano l’arretrato, non interamente contabilizzato, di entità ignota, ma sicuramente ingente senza modificare sostanzialmente la finanza pubblica. In qualche modo lo stesso principio è alla base dell’idea, avanzata in campagna elettorale da Pier Luigi Bersani, di pagare le imprese non in valuta, ma in titoli di Stato.

C’è qui un grano di buonsenso pragmatico, ma in ultima analisi anche questo è un modo per saldare o debiti senza sborsare denaro e, dunque, ha le caratteristiche del defaultstrisciante. Un’alternativa possibile è quella della trasparenza e della semplicità: pagare i debiti della PA attraverso un’emissione speciale di titoli pubblici, convertendo cioè il debito commerciale in finanziario. È questo il suggerimento di Luigi Guiso e Guido Tabellini.

Certo, argomentano i due economisti, in tal modo il debito pubblico crescerebbe in misura corrispondente, ma sarebbe davvero sorprendente se i mercati non scontassero già questi 5 e più punti addizionali di debito rispetto al Pil. Inoltre, l’effetto di maggior trasparenza e conoscibilità della reale situazione dei conti pubblici italiani non potrebbe che avere ripercussioni positive, nel medio termine. Un vantaggio di questo approccio sarebbe poi quello di centralizzare l’intero debito commerciale, spostando su un piano diverso e più propriamente politico la sanzione verso i cattivi pagatori, che sono in larga misura decentrati.

In conclusione: 1) L’accumulazione di €70-80 miliardi di arretrato è un problema eccezionale che non può essere risolto con strumenti ordinari, a costo zero o quasi. 2) Non basta pagare, occorre anche standardizzare le regole contabili delle amministrazioni. 3) Occorre regolarizzare i flussi di nuova spesa imponendo obblighi davvero cogenti di rispettare i tempi di pagamento (come peraltro richiesto dalla direttiva Ue sui tempi di pagamento).

Senza questi interventi non si potrà ristabilire un minimo di credibilità per il paese. Ed è proprio questa incapacità di incidere sull’economia che ci danneggia agli occhi delle agenzie di rating e dei partner europei, ancor più del debito pubblico, già noto e metabolizzato nei precedenti downgrade. Ripartiamo da qui. A che servono le larghe intese se non per attuare riforme volute da tutti?

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

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