Decreto del fare: non basta che sia giusto, deve anche sembrarlo
14/06/2013 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Il primo provvedimento “di peso” del governo Letta, atteso a ore, sarà il “decreto del fare“. Il perimetro dell’intervento non è ancora chiaro. Secondo le anticipazioni disponibili sulla stampa, il decreto metterà le mani su “economia, occupazione giovanile, sburocratizzazione e giustizia”. Nell’attesa di conoscere il testo delle misure, si può comunque parlare di metodo, ovvero della tecnica legislativa che sembra sarà utilizzata.

L’esecutivo si muove all’interno di vincoli che rimangono stretti, nonostante la chiusura della procedura d’infrazione per deficit eccessivo (di cui ci siamo occupati qui). Come ha scritto Guido Gentili sul Sole 24 Ore di giovedì, “l’equilibrio acrobatico” su cui si regge il governo poggia su una “scala delle priorità” che è “all’interno della maggioranza che lo sostiene, fin troppo mobile”.

Lo scenario macroeconomico è tuttora confuso, l’Europa continua a essere divisa al proprio interno e i destini stessi dell’euro sono appesi alla decisione della Corte costituzionale tedesca sulla compatibilità dello “scuso antispread” con la Costituzione di quel paese.

In questa situazione, l’Italia deve fare subito la propria parte. Lo stesso Financial Times ha lanciato un colpo di avvertimento: “Mr Letta has done remarkably little to get the economy going“. Come dire: l’apertura di credito internazionale al premier rischia di chiudersi rapidamente, anche sulla scorta dei “mixed feelings” rispetto all’operato di Mario Monti. Finora abbiamo solo sentito annunci, rinvii e promesse. Il nuovo decreto potrebbe dare concretezza e dunque rafforzare la posizione italiana nel contesto internazionale. Non a caso, l’adozione del decreto è stata prevista in tempo utile prima del prossimo Consiglio Europeo.

Questo primo passo sembra dunque andare nella direzione giusta, tenuto conto anche della situazione e dei ridotti gradi di libertà di cui dispone il governo. Lascia però perplessi la prospettiva di trovarci dinanzi all’ennesimo gran calderone di norme diverse. Letta pare, infatti, orientato a seguire le orme dei suoi predecessori che hanno cercato di mostrare i “muscoli” (e acquistare credibilità) emanando dei “decretoni” con disposizioni ad ampio raggio.

Si pensi ai tre principali atti del governo Monti: il decreto Salva Italia del 6 dicembre 2011, il decreto Cresci Italia del 24 gennaio 2012, e il decreto Semplificazioni del 9 febbraio 2012. Al netto della relazione illustrativa, il primo era composto di 50 articoli per un totale di oltre 45 mila parole.

Gli ambiti di intervento spaziano dalla fiscalità alla spesa pubblica, dalle liberalizzazioni alla riforma delle pensioni, dagli orari di apertura degli esercizi commerciali alle infrastrutture. Il decreto Cresci Italia consisteva di 98 articoli che superano le 50 mila parole, e toccano una vasta gamma di temi dal tribunale delle imprese alla separazione di Snam dall’Eni fino alla repressione delle frodi nel mercato assicurativo. Infine, il decreto Semplificazioni ha 63 articoli per complessive 43 mila parole, dedicate a una lunga lista di oneri burocratici che, in parte, vengono alleggeriti.

I tre decreti si caratterizzano per l’estrema eterogeneità delle modificazioni che apportano alla normativa pre-esistente (una caratteristica un po’ meno marcata nel decreto Semplificazioni) e per il fatto di essere stati convertiti in legge attraverso un voto di fiducia su un maxi emendamento.

Questo modo di procedere, se da un lato potrebbe sortire l’effetto di mostrare ai nostri partner europei la volontà di riformare strutturalmente la cosa pubblica, si presta tre ordini di critiche. In primo luogo, la tecnica legislativa generalmente adottata (fermo restando quanto disposto da …, il … comma dell’art. .. del decreto .. è sostituito …) li rende per lo più incomprensibili, salvo alle “élites” di grand commis di Stato ai vertici dei Ministeri che li hanno redatti, e dunque consente talora di introdurvi disposizioni quanto meno opinabili, frutto di negoziati dietro le quinte con le lobby interessate.

In secondo luogo, così facendo si evita il dibattito nel paese e si acuisce il distacco tra società civile e classe politica, acutamente descritto in un recente editoriale di Giuseppe De Rita. Infine, lo stesso dibattito parlamentare finisce per essere ridotto a una sorta di derby calcistico: o si è a favore del governo o si è contro e questo solo determina l’attitudine verso il decreto stesso (e il voto).

I contenuti diventano quasi irrilevanti. L’irrinunciabile voto di fiducia vi mette il suggello. È tecnicamente impossibile manifestare appoggio a un articolo e contrarietà ad un comma, perché il provvedimento sarà da “prendere o lasciare” nel suo complesso.

In tal modo si ha una sostanziale emarginazione del parlamento dal processo legislativo che si riduce a un confronto diretto tra l’esecutivo e i portatori di interessi. È chiaro che questo svilisce il senso stesso della democrazia rappresentativa, da un lato, e riduce la visibilità sull’attività di produzione delle norme, dall’altro. Chiedere riforme istituzionali che garantiscano l’effettività delle decisioni – a cui siamo favorevoli – implica anche pretendere una maggiore responsabilizzazione e divisione dei ruoli tra i diversi attori istituzionali. Il collasso del parlamento non aiuta a far evolvere l’Italia verso una maggiore maturità democratica.

In conclusione, mentre attendiamo con ansia di conoscere i contenuti del “Decreto del fare”, crediamo sia utile riflettere sulle modalità attraverso le quali il governo sempre più spesso opera. Sarebbe l’ora di cambiare strada: se bisogna affrontare problemi diversi, meglio adottare interventi distinti e norme di facile lettura. Solo così ne potrà seguire un dibattito pubblico di qualità. La trasparenza amministrativa, di cui tutti amano parlare, comincia da qui.

Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle

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The European Business Code Project, Europa experience-Davide Sassoli, Piazza Venezia 6, Roma, 29 settembre 2023

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