Il tempo della politica è lento. Il tempo dei mercati è rock
13/03/2013 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

I giorni passano stanchi mentre si attende che si consumi il tentativo di Bersani inevitabilmente destinato al fallimento. È un rito necessario solo a fini interni, per chiudere la sua stagione di segretario del PD. Nessuno veramente crede che possa portare alla formazione di un nuovo esecutivo ancorché di minoranza. Nel frattempo, Renzi si è ripresentato sulla scena con una serie di proposte interessanti e una rinnovata vitalità, forte della fiducia che sta acquisendo anche sui mercati internazionali. L’articolo di Münchau sul Financial Times di qualche giorno fa ne è la riprova.

Il ritorno alle urne a breve, come Renzi auspica, purtroppo non sembra verosimile. E’ un’illusione pensare che si possa votare a giugno, date le innumerevoli scadenze istituzionali. Basti, poi, ricordare che dallo scioglimento delle camere alle elezioni devono passare non meno di 45 giorni; senza contare il tempo necessario all’elezione del nuovo Capo dello Stato. Poiché la campagna elettorale non è possibile in estate, ragionevolmente la prima data utile sarebbe in autunno.

Ciò vuol dire una paralisi istituzionale per almeno sei mesi, con un governo sostanzialmente inattivo, nel cuore di una ancora pesante recessione, con il rischio di un nuovo credit crunch, paventato dalle recenti dichiarazioni sulla crescita delle sofferenze bancarie del governatore Visco. Per non dire della pesante conflittualità che si prospetta a seguito delle vicende giudiziarie di Berlusconi. Non solo: i tempi sono strettissimi per una modifica della legge elettorale e non possiamo permetterci di trovarci ancora in una situazione di ingovernabilità dopo un nuovo voto. Il pericolo che Grillo aumenti la propria popolarità proprio per l’incapacità dei partiti di governare e autoriformare la res publica è concreto. Non si può scherzare col fuoco.

Meglio dunque un esecutivo del Presidente che ponga mano non solo alle riforme indispensabili sul piano istituzionale, ma anche agli interventi più urgenti in tema di finanza pubblica ed economia per poi tornare al voto nella prossima primavera. Ciò darà il tempo alle forze riformatrici e liberal-democratiche di creare una nuova coalizione, guidata da Renzi, e, dall’altro lato, potrebbe consentire al PDL di avviare un percorso verso una nuova leadership che possa presentarsi al paese in alternativa. Solo così, tra l’altro, si potrà contrastare efficacemente il fenomeno Grillo che non può essere sottovalutato o irriso perché rappresenta un reale disagio di larga parte del paese. Ovviamente, si dovranno fare dei compromessi e molte riforme altrettanto importanti dovranno probabilmente essere postergate, ma meglio nel frattempo portare a casa dei risultati concreti e tornare alle urne tra 12/15 mesi con un nuovo sistema elettorale, dei leader più credibili sia a destra sia a sinistra che possano contendersi la premiership e in una migliore situazione economico-finanziaria.

E allora, partendo dalle cose da fare, sul piano delle riforme istituzionali, in questo breve arco temporale si può (i) modificare la legge elettorale, tra l’altro reintroducendo le preferenze, (ii) correggere il bicameralismo perfetto dando una diversa funzione al Senato, (iii) ridurre il numero dei parlamentari, (iv) abolire il finanziamento pubblico dei partiti e introdurre limitazioni e regole trasparenti per i finanziamenti dei privati sul modello delle democrazie più evolute, e (v) abolire le province.

Per quanto attiene alla finanza pubblica, qualunque scelta futura deve guardare, come stella polare, al Fiscal Compact. In assenza di interventi decisi scatteranno una serie di aggiustamenti più o meno automatici, a partire dall’aumento dell’Iva dal 21 al 22 per cento quet’estate. Proprio per scongiurare il rischio “pilota automatico” serve un governo nella pienezza dei suoi poteri, che dia piena realizzazione alla “agenda Draghi” abbozzata nella lettera della Bce dell’agosto 2011 e ancora largamente incompiuta.
A partire da quello che l’ultimo “Fiscal Sustainability Report” della Commissione europea individua come il principale fattore di rischio per l’Italia: il debito pubblico. La sostenibilità di medio termine delle nostre finanze pubbliche è condizionata al mantenimento di un significativo avanzo primario (circa il 5 per cento del Pil) che, dato l’andamento atteso del prodotto interno lordo, è un obiettivo estremamente difficile da mantenere. Meglio sarebbe prendere il toro per le corna: cioè aggredire il debito attraverso un massiccio piano di privatizzazioni (che lo stesso PD aveva pudicamente contemplato nel proprio programma e che si ritrova anche negli 8 punti di Bersani sotto la voce “disboscamento delle società pubbliche”).

Contemporaneamente occorre avviare una seria razionalizzazione della spesa pubblica, che faccia della spending review non già lo strumento eccezionale per stringere i bulloni, ma uno strumento ordinario di controllo della spesa che prenda le mosse dalla definizione, anno per anno, delle spese realmente necessarie. Da ultimo, resta ineliminabile l’esigenza di un’ulteriore haircut sulle pensioni più elevate.
Per quanto attiene al fronte sociale, le urgenze sono i pagamenti della pubblica amministrazione e il lavoro. Per quest’ultimo non vi sono altre strade, almeno nell’immediato, che la flexsecurity di cui da tempo va parlando Ichino: uniformazione dei contratti e maggiore flessibilità in entrata e uscita. Ma questo implica maggiore spesa sociale, che a sua volta richiede un impegno ferreo a tagliare spesa improduttiva; così come lo stesso sforzo va rivolto alla riduzione delle imposte, a partire da quelle più dannose o distorsive come l’Irap e l’Irpef, temi sui quali, almeno a parole, tutti i partiti sembrano convergere.

Le cose da fare sarebbero molte altre, ovviamente, e spesso a costo zero. Basti pensare, per fare solo un esempio comune a tutti i programmi, alle riforme sulla giustizia per accelerare i tempi delle cause e dare maggiore certezza del diritto. Ma se le poche cose essenziali sopra indicate fossero realizzate nel breve periodo sarebbe già un miracolo e potremmo andare a nuove elezioni, senza essere i sorvegliati speciali dell’eurozona e in una situazione di minor rischio di conflittualità sociale. E’ possibile. Non è l’ottimismo della volontà che detta queste considerazioni, ma piuttosto il pessimismo della ragione. Siamo in un angolo e non abbiamo alternative. O scegliamo di essere protagonisti di un processo di riforma condiviso, oppure lo stesso processo dovremo subirlo per diktat esterni come unica alternativa al fallimento. Non siamo ancora al paradosso di Woody Allen in cui “una via conduce alla disperazione, l’altra all’estinzione totale”. Speriamo di avere la saggezza di scegliere bene!

Alberto Saravalle, Carlo Stagnaro

Questo articolo è stato pubblicato su L’Huffington Post, il 13 marzo 2013.

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