Investimenti esteri: sole mare e pizza non bastano
02/08/2013 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

A caccia di investimenti esteri? Nei giorni scorsi, il premier Enrico Letta ha citato l’imminente lancio di un programma denominato “Destinazione Italia“. Lo stesso Presidente Napolitano li ha definiti “cruciali”. Ci piace pensare che non sia l’ennesimo annuncio, più mediatico che di sostanza. Del resto, i roadshow all’estero, come quelli del governo Monti in Asia, nel Golfo Persico e più recentemente negli Stati Uniti si sa servono a poco.

Gli investitori sono disincantati e si attendono azioni concrete non autocelebrazioni o vaghe promesse. E, infatti, nel 2012 gli investimenti esteri diretti sono crollati del 70% scendendo da 34 a 10 miliardi di Euro. Che fare allora? Ecco alcune proposte concrete.

Il punto di partenza deve essere la consapevolezza dei nostri punti deboli. Primo: l’Italia ha in Europa un record negativo: nel 2012 gli investimenti esteri sono stati appena lo 0,4% del nostro Pil (contro una media Ue del 2%). Se però guardiamo al quinquennio 2008-2012 il quadro non cambia: lo 0,6% italiano è meno di un quarto del 2,5% medio europeo. Secondo: la capacità di un paese di attrarre investitori stranieri è strettamente correlata con le sue prospettive di crescita. In sostanza, quello degli investimenti diretti esteri è per noi un problema endemico e strutturale.

La prima cosa da fare è cambiare l’approccio ambivalente delle nostre autorità nei riguardi degli investitori stranieri. Negli ultimi anni, infatti, si sono alternati atteggiamenti a dir poco ostili (Tremonti ebbe a dire “la Cina ci sta mangiando vivi”) a raffazzonati incontri con investitori istituzionali e fondi sovrani nella speranza di significativi investimenti che ci consentano di finanziare il debito o far fronte all’emergenza lavoro.

Quando poi gli investimenti arrivano, sotto forma di acquisizione, ecco tutti pronti a gridare allo scandalo: “ci stanno portando via i gioielli di famiglia”. La verità è che chi ha acquisito società simbolo del “made in Italy“, ha sborsato ingenti capitali e certamente vuole valorizzare i propri investimenti e farà di tutto per rafforzare i marchi, internazionalizzarli e farli crescere ulteriormente.

Il nostro problema non è che gli stranieri comprano le nostre aziende, ma casomai che gli italiani non cercano di farlo. Considerazione che dovrebbe farci riflettere e di cui dovremmo occuparci seriamente. È di questi giorni, peraltro, il grido di dolore lanciato da Marchionne: “le condizioni industriali in Italia restano impossibili”! Quando Parmalat era contendibile, per esempio, nonostante le pressioni politiche e bancarie, nessuno fu disponibile a metter mano al portafoglio e prendere il controllo dell’azienda ormai rimessa in bonis.

Così, tutt’al più ci si rassegna a cercare un acquirente pubblico (dichiarando l’assetstrategico) o le cosiddette soluzioni “di sistema” (grandi banche e cordate di imprenditori che, più o meno spontaneamente, acquistano quote di società che potrebbero finire sotto l’influenza straniera). Sarebbe meglio, invece, che le banche facessero le banche, finanziando chi è disposto a mettere capitale di rischio perché crede in un progetto.

Nel merito, le ragioni per cui gli stranieri non vengono in Italia sono arcinote: intralci burocratici (il cosiddetto “red tape“), tassazione eccessiva (specie per effetto del cuneo fiscale), incertezza del diritto, tempi della giustizia civile, percezione di corruzione, rigidità del mercato del lavoro, lungaggini doganali per le esportazioni, ecc.

Tutte le classifiche internazionali ci inchiodano a queste tristi realtà (a titolo di esempio:Doing Business della Banca Mondiale, Global Competitiveness Report del World Economic Forum, Index of Economic Freedom di Heritage Foundation/Wall Street Journal).

In particolare, le difficoltà burocratiche, i tempi per l’ottenimento delle autorizzazioni e lamalagiustizia amministrativa inducono gli stranieri a privilegiare le acquisizioni piuttosto che i cosiddetti greenfields, in cui si parte da zero. Porre rimedio a questa situazione non è facile e soprattutto non è rapido. Vaste programme, per dirla con De Gaulle.

Il governo Monti si è limitato alla creazione di uno sportello unico: il Desk Italia che funge da “coordinamento territoriale nazionale per gli investitori esteri che manifestino un interesse reale e concreto alla realizzazione in Italia di investimenti di rilevante impatto”. Una definizione che già dice troppo…

L’unico modo per affrontarlo seriamente è ipotizzare una legge quadro che, nel rispetto della normativa Ue (e quindi con modalità non discriminatorie e non selettive), consenta di accordare agevolazioni alle società straniere, che facciano investimenti rilevanti in Italia. Ovviamente diamo per scontato che i beneficiari siano individuati in modo oggettivo (ammontare dei fondi investiti, numero di dipendenti assunti, ecc.), ma permane il rischio di contestazioni da Bruxelles.

Occorre anche che le autorità fiscali diano assicurazioni circa il rischio di repentini cambiamenti peggiorativi della legislazione: si pensi al caso clamoroso della “Robin Hood Tax“, un’addizionale sugli “extraprofitti” di un settore oggi in crisi profonda (quello energetico) che, dal 2008 a oggi, ha quasi triplicato la sua aliquota. Si potrebbe pensare, a questo proposito, a degli interpelli confermativi che cristallizzino, per un periodo definito, la posizione fiscale, indipendentemente da eventuali modifiche legislative.

Parallelamente, si potrebbe ragionare sull’adozione di sunset clauses, in modo che chiunque sappia che, trascorso un certo periodo, l’agevolazione sarà rimessa in discussione alla luce dei risultati empirici ottenuti (risolvendo così anche il problema della “par condicio” con gli italiani). L’altro tema su cui occorre dare certezze è quello delle autorizzazioni amministrative, spesso di competenza degli enti locali. Lo sportello unico non pare sufficiente. Serve piuttosto un protocollo d’intesa, seguito da un patto interistituzionale con tutti gli enti locali coinvolti che in tal modo si obbligano a rispettare i tempi previsti per le varie autorizzazioni.

Per la giustizia civile è più difficile trovare soluzioni che accelerino l’iter delle cause. In questo senso andava l’art. 80 del Decreto del Fare che prevedeva che le cause che hanno come parte una società con sede all’estero, priva di rappresentanza stabile in Italia, dovessero essere radicate a Milano, Roma e Napoli, soppresso nel testo approvato dalla Camera. Si potrebbe anche riconsiderare l’idea di costituire sezioni specializzate per la sola proprietà intellettuale, molto cara agli investitori stranieri, specie americani.

Non è più tempo per promesse, né per la retorica del bel paese. Gli investitori cercano fatti. Il governo si giocherà una buona parte del proprio goodwill internazionale dimostrando che è cambiato veramente qualcosa nel clima verso gli investitori esteri. Ci piacerebbe immaginare Letta che, nei roadshow a venire, dopo aver spiegato la nuova disciplina del decreto Destinazione Italia, scandisca a chiare lettere “tasse certe e basta red tape“. Ma soprattutto che lo faccia avendo già adottato dei provvedimenti definitivi o comunque non suscettibili di essere stravolti in Parlamento. Gli stranieri hanno imparato a non fidarsi di noi, in questi anni, e riacquistare la loro fiducia richiederà un ingente capitale politico.

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

Prossimi appuntamenti

The European Business Code Project, Europa experience-Davide Sassoli, Piazza Venezia 6, Roma, 29 settembre 2023

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