La fine dell’austerità?
14/05/2013 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Dopo un biennio passato pensando solo a tagliare i costi sembra tornare di moda Keynes che, com’è noto, diceva: “Il tempo giusto per le misure di austerità è durante un boom, non durante la depressione”.

La discussione politica pare nuovamente concentrarsi su “dove spendere” anziché su “cosa tagliare”. Nella due giorni di riunioni del G7 in Inghilterra, appena conclusa, la parola d’ordine è stata “job creation“. Da più parti si cerca ormai una mediazione tra austerità e crescita. Nessuno sa, però, in cosa consista. La diatriba tra gli assertori dell’austerity e quelli della crescita ha fatto venir meno l’asse franco-tedesco che aveva condizionato le scelte in Europa negli ultimi vent’anni.

La Germania si trova nell’angolo e appare costretta a rinunciare, almeno in parte, a pretendere dai propri partner europei quel rigore che aveva praticato internamente per esorcizzare il fantasma indelebile di Weimar. Ma, almeno fino alle elezioni dell’autunno, la Merkel non può cambiare del tutto le politiche fin qui perseguite.

A casa nostra, il calo dello spread contribuisce a rafforzare la tesi per cui il peggio è passato. Se, come molti credono, i tassi di interesse sui titoli di Stato resteranno attorno ai livelli attuali almeno per un po’, l’incubo del prelievo notturno sui conti correnti verrà meno. In realtà, è vero che le cose sono cambiate, ma non esattamente in questi termini. La politica non si ripresenta mai uguale a se stessa. Se cambiano le condizioni, devono mutare anche le risposte.

In Italia, c’è certamente un clima meno teso rispetto a qualche mese fa. Il rigore di Monti ha aiutato. A conti fatti, però, il governo tecnico ha perseguito l’equilibrio dei conti pubblici prevalentemente attraverso l’introduzione di nuove imposte. Ha aiutato anche il rinnovato impegno della Banca Centrale Europea nel praticare una strategia interventista: almeno nell’immediato toglie qualche castagna dal fuoco ai governi, sebbene sia del tutto fuori luogo chiedere alla politica monetaria di risolvere una crisi che dipende largamente dalla struttura stessa della nostra economia.

Tuttavia, l’apparente bonaccia deve fare i conti con due fattori che sono destinati a influenzare pesantemente l’avvenire. Il primo è la modifica dell’articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio. Per quanto la formulazione sia ambigua, esso restringe lo spazio di manovra della politica. Il ritorno ai deficit allegri, insomma, non è più un’opzione. Ed è bene che sia così.

Nel passato, il “dividendo dell’euro” – cioè il decennio di bassi tassi di interesse che ha consentito di contenere la spesa per il servizio al debito pubblico italiano – è stato interpretato dai governi italiani come un mandato ad aumentare la spesa corrente in misura più che proporzionale ai risparmi così ottenuti.

Questo non deve e non può più verificarsi: le (eventuali) minori spese per interessi e la (eventuale) maggiore flessibilità devono essere messe a frutto, rispettivamente, per finanziare tagli d’imposta e adottare riforme che aiutino a ridurre le uscite nel medio termine, pur aumentandole in qualche misura nel breve (l’esempio tipico sono gli investimenti in digitalizzazione della PA o l’adozione della cosiddetta golden rule sull’abbattimento delle tasse per chi assume i giovani).

Questo tipo di discussione, che a livello nazionale ha una dimensione in parte amministrativa, diventa politica a livello europeo. Lo scontento per le pressioni tedesche, inizialmente limitato ai PIIGS, si è progressivamente esteso prima a paesi che stavano iniziando a soffrire le limitazioni alla propria politica di bilancio (come la Francia) e poi a tutti gli altri.

Ne è testimonianza concreta e, per certi versi, preoccupante l’appello a lasciare l’Europa rivolto al premier britannico, David Cameron, da Nigel Lawson. Quest’ultimo, infatti, non è un fanatico isolazionista; anzi, abbandonò la posizione di Cancelliere dello Scacchiere proprio in dissenso con le posizioni euroscettiche di Margaret Thatcher. Uscire dall’UE, per Lawson, è l’unico modo oggi per liberarsi dal “frenzy of regulatory activism” di Bruxelles. Non è questa la sede per dire se si tratti di mera provocazione intellettuale o di autentica sfida politica, ma c’è un grano di verità in questa accusa.

Riportata alla politica di bilancio e all’austerità, la critica di Lawson ci aiuta a mettere in luce il vero paradosso dell’austerità in salsa germanica. Che sta, per rubare le parole a Ugo Arrigo, nell’aver confuso “il settore pubblico col suo bilancio e il bilancio col suo pareggio”.

Non crediamo di dire nulla di originale, nel sostenere che l’aritmetica del rigore deve coniugarsi con la geometria della crescita. Questo, tuttavia, non implica che si possa o debba tornare ai “good ol’ times” della spesa pazza: deficit e debito stanno alla crescita come un salto dalla finestra sta all’ebbrezza del volo.

Finché si cade l’adrenalina ti fa eccitare, ma a un certo punto si atterra. Ed è impossibile non atterrare. Il rigore non va perseguito con mentalità ragionieristica, ma con profonda attenzione alle conseguenze di lungo termine delle proprie scelte.

Questo ci porta al punto di partenza. Non è finita l’austerità. Forse è finito un certo tipo di austerità. In altre parole: non basta essere austeri, bisogna anche essere intelligenti. Il pareggio di bilancio non è sufficiente, occorre anche tagliare le tasse e fare le riforme strutturali che sole possono risolvere i problemi a medio-lungo termine.

Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle

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