Letta sarà un Churchill o un Mac Donald?
29/08/2013 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Ramsay Mac Donald: chi era costui? Non si tratta del fondatore della nota catena di hamburger, ma di uno dei padri del partito laburista e primo ministro inglese che Winston Churchill, con una tagliente battuta, ha consegnato alla storia come “a sheep in sheep’s clothing“. Ebbene, ci ricorderemo di Enrico Letta come di un Mac Donald o piuttosto un Churchill che ha avuto il coraggio di offrire “blood, toil, tears, and sweat” in uno dei momenti più difficili della storia britannica?

Negli ultimi giorni è sembrato che la situazione politica italiana precipitasse e l’intera attività di governo fosse volta solo a tenere assieme una maggioranza esasperata. Il colpo d’ala che ha portato alla decisione del Consiglio dei Ministri di abolire a tappe l’Imu, al di là dei proclami di vittoria del Pdl e dei pronostici di lunga vita al governo, non sembra duraturo. Ieri era l’Imu, domani sarà qualcos’altro.

Il premier ha pertanto un’opportunità storica: prendere le redini del governo, sottraendosi ai continui ricatti e negoziati cui è quotidianamente costretto dai partiti e assumendo, di fronte all’opinione pubblica, la responsabilità di tirare il paese fuori dalle secche con un piano a medio-lungo termine.

Finora, il governo non ha saputo mettere in atto le grandi riforme di cui c’è disperato bisogno. Sebbene vi siano stati spunti interessanti (a partire dal progetto “Destinazione Italia“), è mancato il mordente: l’esecutivo è rimasto ostaggio prima delle pressioni dei partiti e poi della polemica conseguente alla condanna di Berlusconi e del dibattito sulla sua decadenza da senatore.

Se Palazzo Chigi non rovescia il tavolo, lo scenario è destinato a peggiorare, in un clima di agguati reciproci, ultimatum e richieste pretestuose. Così, il governo potrebbe cadere per gli attacchi sia da sinistra – dovuti ai crescenti mal di pancia legati alla convivenza col Pdl (a maggior ragione con il congresso del Pd alle porte) – sia da destra – ora che non c’è più la scusa dell’Imu – per la questione giustizia o con qualche altro alibi. In questo scenario, Letta per sopravvivere a medio termine deve dismettere il cappello del mediatore e indossare quello del leader, forte della consapevolezza che, come ha detto Napolitano, le conseguenze di una crisi politica potrebbero essere drammatiche.

Esprimere leadership significa anzitutto identificare un obiettivo, scegliere gli strumenti per realizzarlo e fissarne le tappe. Ovviamente, a maggior ragione in questo difficile contesto, l’obiettivo deve essere suscettibile di determinare uno shock positivo sull’economia italiana, e facilmente comprensibile dagli italiani, ormai disillusi dai troppi tentativi andati a vuoto, coagulando un ampio supporto popolare all’iniziativa governativa.

Tra le tante ragioni della stagnante produttività italiana, una tra le principali è, com’è noto, l’eccessiva pressione fiscale, in particolare sui redditi da lavoro e da impresa. Il governo dovrebbe pertanto mettere nel mirino il sistema tributario, andando incontro alle esigenze delle famiglie (specie quelle dal reddito medio-basso) e delle imprese. Il target dovrebbe cioè essere una significativa riduzione dell’Irpef (per esempio aumentando l’ampiezza delle fasce di reddito a cui si applicano le detrazioni, piuttosto che toccando le aliquote formali) e dell’Irap (a partire dalla piena deducibilità del costo del lavoro dall’imponibile).

Un piano di questo genere, per sortire un impatto, deve avere una dimensione rilevante. Come hanno scritto alcuni mesi fa Alberto Alesina e Francesco Giavazzi: “un ammontare dell’ordine di 50 miliardi… abbasserebbe la pressione fiscale di circa tre punti, contribuendo alla ripresa dell’economia.” Per attuarlo, può essere ragionevole ricorrere a tutta la flessibilità derivante dalla chiusura dell’infrazione europea sul deficit, spesso invocata a sproposito. Di pari passo, però Alesina e Giavazzi hanno ricordato che occorrerebbe “adottare un piano di riduzione graduale ma permanente delle spese: un punto di Pil di tagli all’anno per tre anni”.

In quale modo tale strategia potrebbe essere attuata? Innanzitutto è necessario riportare il pallino in mano al governo, evitando il quotidiano logoramento per opera dei partiti e soprattutto senza vivacchiare con concessioni che comportano continui aggravi di spesa (i precari, la Cig, l’Imu, ecc.) senza risolvere i problemi alla base. A nostro avviso, il governo dovrebbe predisporre, entro il termine della presentazione della legge di stabilità, un piano triennale che individui tagli di spesa per almeno 50 miliardi di euro (inclusi i risparmi sul servizio al debito connessi alle privatizzazioni), vincolandone l’utilizzo alla riduzione di Irap e Irpef (con precedenza per quest’ultima).

In sostanza, si tratterebbe di riprendere con vigore il percorso della spending review, il cui completamento è peraltro alla base dell’esperienza stessa della Grande Coalizione. Nell’annunciare tale piano, il primo ministro dovrebbe rendere chiarissimo un punto: trattandosi di un elemento essenziale del programma di governo, nel caso di mancata approvazione, o di una sua adozione in forma attenuata, ne trarrebbe le conseguenze recandosi al Quirinale con le proprie dimissioni. Chiunque voti contro, insomma, si assumerà di fronte al paese la responsabilità di aver fatto saltare un grande piano di taglio della pressione fiscale per opportunismo politico o per ragioni clientelari.

Ci rendiamo conto delle difficoltà politiche che un simile piano incontrerebbe, ma sarebbe il solo modo per assicurare un cambio di passo nell’azione del governo, avviando gradualmente la “madre delle riforme”. Tornando ai due leader britannici citati in premessa, Churchill disse: “It is better to be making the news than taking it; to be an actor rather than a critic“. Di MacDonald, nessuno ricorda alcuna citazione.

Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle

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