Privatizzazioni di carta? A pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca
28/11/2013 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

La buona notizia è che dalla scorsa settimana finalmente le privatizzazioni sono ufficialmente entrate nell’agenda di governo, dopo tanto parlare in termini generali e un po’ fumosi. La cattiva notizia è che il piano è insufficiente e poco trasparente. Per il momento, infatti, manca un cronoprogramma, si tratta di operazioni dichiaratamente volte a non perdere il controllo, non sono state fornite indicazioni sulle modalità di realizzazione e, in taluni casi, restano forti perplessità sulla loro attuazione. Manca poi alcun accenno al vasto mondo del cosiddetto “capitalismo municipale” in larga parte disastrato, come è emerso dai fatti di Genova della scorsa settimana.

Le privatizzazioni, secondo le linee guida dell’OCSE e la miglior practice internazionale, dovrebbero ora essere implementate (i) con una regia centrale (sotto l’egida del Comitato delle privatizzazioni, appena insediatosi), (ii) con l’assistenza di advisors nominati in modo trasparente e remunerati in modo tale da non creare conflitti d’interesse, (iii) con regole chiare, comunicate preventivamente al mercato, attraverso procedure competitive e suscettibili di evitare zone grigie dove si possano annidare discrezionalità o favoritismi, (iv) possibilmente evitando cessioni “in blocco” e prediligendo la vendita scadenzata di pacchetti di azioni a soggetti diversi. Di tutto ciò per ora non se ne parla. Il timore è che ancora una volta scontiamo l’effetto annuncio, ma tra il dire e il fare passi molto tempo.

Il punto di partenza dovrebbe essere un piano specifico con tempistiche e modalità chiare: vendite in borsa, quotazioni, aste per la cessione dell’intero pacchetto azionario, ecc. Se si cede la maggioranza, per monetizzare il premio di controllo, deve essere chiaro che non si vuole mantenere, in forma più o meno surrettizia, il comando congiuntamente ai nuovi azionisti. In taluni casi, per esempio, si è detto che verrà venduto il 60% della società (SACE e Grandi Stazioni). Una rilevante partecipazione rimasta in capo all’attuale azionista potrebbe dissuadere potenziali compratori che temano di non poter poi esercitare i normali poteri spettanti all’azionista di maggioranza.

Incerta è la tempistica dell’operazione annunciata su Eni che presuppone la previa realizzazione di un ingente buy back da parte della società. I tempi non saranno certamente brevi, dato l’importo in questione. Vi è poi il rischio che gli azionisti di minoranza contestino l’opportunità di un simile esborso. Infine, resta da capire perché si ritenga indispensabile mantenere almeno il 30% in mani pubbliche (a maggior ragione ora che sembra cambiare la disciplina dell’OPA, con la possibilità che sia resa obbligatoria per il superamento di soglie inferiori che diano comunque il controllo). Meglio sarebbe stato parlare solo della vendita e lasciare alla discrezionalità della società la valutazione dell’opportunità di una simile operazione oltre ai tempi e agli importi in gioco.

Infine, per quanto attiene a SACE, da più parti sono stati avanzati dubbi circa i valori ai quali dovrebbe essere venduta, tenendo conto che solo pochi mesi fa è già stata oggetto di un primo trasferimento dal Tesoro alla Cassa Depositi e Prestiti che, in quanto partecipata anche da soggetti terzi (le fondazioni), si assume l’abbia acquistata a prezzi di mercato.

Il vero problema, comunque, è l’omissione nel comunicato del governo ad alcun piano d’azione per intervenire nel vasto mondo delle partecipate da enti locali che, proprio in questi giorni, è tornato a far notizia per i dissesti e disservizi in particolare del settore del trasporto locale. Emblematico è stato il caso di Genova, dove i sindacati hanno ottenuto, in seguito a 5 giorni di sciopero selvaggio, finanziamenti aggiuntivi e la garanzia che neppure una quota minoritaria del capitale sociale andrà in mano ad azionisti privati.

Forse non tutti sanno che, al fine di tutelare la concorrenza e il mercato, fin dalla finanziaria del 2008 è previsto che gli enti locali possano detenere solo partecipazioni in società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi, strettamente necessarie per il perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente, società che producono servizi di interesse generale e società che forniscono sevizi di committenza. La norma però viene puntualmente elusa perché periodicamente le amministrazioni affermano, con delibera ricognitiva, di fatto raramente contestata, che tutte le partecipate sono strettamente necessarie o comunque svolgono servizi di interesse generale. Così, tutto il variegato mondo del capitalismo municipale (per es.: enti volti genericamente a promuovere lo sviluppo del territorio e l’imprenditoria locale che spendono fondi pubblici, impiegano personale in eccedenza e nei cui consigli siedono spesso solo politici locali) viene mantenuto in essere in larga parte in violazione della ratio della legge.

Per sbloccare la situazione, è indispensabile una puntuale definizione dei parametri da cui dedurre inequivocabilmente la necessarietà della partecipazione e una rigorosa verifica da parte di un soggetto esterno (il Comitato privatizzazioni? l’Autorità Garante della Concorrenza? la Corte dei Conti?) della correttezza dell’atto di ricognizione. In altri termini: impugnazione dell’atto dell’ente locale che mantiene in vita la partecipata, responsabilità personale degli amministratori locali e, in ultima analisi, scioglimento forzoso, anche con potere sostitutivo dell’amministrazione centrale.

Il controllo dovrebbe essere particolarmente attento nel caso di ripatrimonializzazioni, da parte degli enti locali, di società tecnicamente fallite: ancora una volta, Genova insegna, ma è noto – e lo ha confermato il sottosegretario allo Sviluppo economico D’Angelis – che oltre il 40% delle municipalizzate del trasporto locale si trovano in tale condizione. L’adozione di strumenti di controllo adeguati è doppiamente importante all’indomani della cancellazione delle norme che imponevano la cessione delle società strumentali (cioè quelle che devono oltre il 90% del loro fatturato all’amministrazione controllante), con un emendamento alla legge di stabilità sostenuto al Senato dall’esecutivo.

Il paradosso è che tutti sono formalmente d’accordo nel voler dismettere o liquidare le partecipate degli enti locali. Perfino Bonanni – strenuo oppositore delle privatizzazioni delle partecipate dirette dal Tesoro – ha scritto che da qui dovrebbe iniziare la ritirata del pubblico. Forse perché, essendo sottratte al controllo diretto dello Stato, come dimostra la prassi, è estremamente difficile passare ai fatti. A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

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