“Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi…”: si potrebbe sintetizzare così, con le parole di Lucio Battisti, l’atteggiamento della Gran Bretagna verso l’Unione europea, alla vigilia delle elezioni che si terranno giovedì 7 maggio. Le votazioni, a ben vedere, potrebbero avere rilevanti conseguenze per l’Europa nel suo complesso. Il Regno Unito è, infatti, in preda a forti spinte disgregatrici interne (la non-del-tutto sopita aspirazione della Scozia alla secessione) ed esterne (non è un caso se molta parte del dibattito politico ruota attorno alla minaccia di “Brexit”, l’uscita dall’Unione europea). Il paradosso inglese, in relazione a quest’ultimo punto, sta nel fatto che l’ “interesse nazionale” è di restare nell’Ue, mantenendo però alto il tasso di euroscetticismo. E questa coscienza critica fa bene all’intera Unione. Basta non esagerare.
A prima vista la situazione economica, per quanto non sia rosea, non sembra troppo preoccupante. Nei cinque anni di governo conservatore, il deficit si è ridotto, la spesa pubblica anche e l’occupazione è più elevata di molti altri paesi europei. I principali temi della campagna elettorale riflettono differenze ideologiche profonde. Non si discute tanto dell’economia, ma di un futuro che si vorrebbe più equo per tutti. Per esempio, sono controversi gli aiuti da dare alle classi più povere per finanziare l’acquisto della prima casa (i prezzi sono infatti cresciuti enormemente negli ultimi anni rendendo spesso inaccessibile l’acquisto ai giovani). I laburisti promettono di esonerare dalla tassazione l’acquisto di case fino a £ 300.000 (compensandolo con maggiori tasse sui proprietari stranieri e minori sgravi per chi limita la manutenzione), mentre i conservatori promettono di aumentare le vendite di case popolari a prezzo scontato. Altro tema molto caldo è la proposta del partito di Miliband di limitare il margine di profitto delle imprese private dalle forniture al Servizio Sanitario Nazionale. Sempre sulla stessa linea, il Labour propone da tempo un price freeze sull’energia elettrica, che rappresenterebbe il definitivo abbandono del sentiero di liberalizzazione in cui il paese è stato apripista in Europa. Anche in questo caso è più una questione ideologica che economica (concorrenza contro dirigismo), ma nel complesso non sono questi i motivi di preoccupazione.
Impensierisce, invece, il rischio – insolito per il Regno Unito – che venga meno la governabilità. Conservatori e laburisti, secondo i sondaggi, sono infatti quasi alla pari (con un lieve vantaggio di questi ultimi), ma ben lontani dalla maggioranza assoluta. Per la prima volta, altri tre partiti si contendono importanti segmenti dell’elettorato e potrebbero finire per avere un ruolo decisivo per la formazione del governo: gli antieuropeisti di UKIP, il partito secessionista scozzese (SNP) e i liberal-democratici di Clegg che oggi sono al governo in coalizione con Cameron (i quali, però, sembrano in caduta libera rispetto ai risultati di pochi anni fa). In altri termini, potrebbe aprirsi una nuova stagione di instabilità con altre elezioni a breve ovvero con alleanze a dir poco “innaturali”. Non pensiamo tanto all’eventualità di un governo di larghe intese con laburisti e conservatori, quanto piuttosto a governi che, oltre a uno dei due maggiori partiti, richiedano la contestuale presenza sia dei liberal-democratici sia dei nazionalisti scozzesi ovvero dell’UKIP. Ipotesi che oggi sono state escluse da Clegg, ma a urne chiuse potrebbero tornare d’attualità.
Più di tutto però inquieta il crescente antieuropeismo che non riguarda più solo le frange estreme che votano UKIP – fenomeno ormai comune in tutti i principali paesi – ma che ormai pervade lo stesso partito conservatore. Cameron, stretto nella morsa tra Farage e il secessionismo scozzese sta reagendo con un atteggiamento crescentemente antieuropeo che lo sta isolando sempre più, al punto da farsi criticare perfino dall’Economist che pure in generale lo appoggia. Basti pensare alle prese di posizione contro la libera circolazione delle persone. Una battaglia persa a priori perché equivale a negare uno dei capisaldi sui quali si regge l’Unione europea. In questo senso anche le improvvide dichiarazioni sugli immigrati, dopo la recente tragedia in mare, con le quali condizionava gli aiuti della marina britannica al fatto “che le persone salvate saranno portate nel Paese sicuro più vicino, probabilmente in Italia e che non chiederanno asilo nel Regno Unito”. Frasi mirate più al ventre molle dell’elettorato britannico che fondate su principi di diritto internazionale o dell’Unione europea. In sintesi, la vittoria di Cameron aprirebbe le porte a un referendum sull’Europa nel 2017, il cui esito è tutt’altro che scontato.
Il rischio, da non sottovalutare, è dunque di trovarsi tra l’incudine e il martello: una maggioranza non coesa e ideologizzata o un’alleanza antieuropea. Mentre continuiamo a leggere pagine su pagine di commenti per ogni, anche ininfluente, dichiarazione di Tsipras, forse dovremmo cominciare a preoccuparci di più di quanto avviene nel nord Europa. L’Ue sopravvivrebbe certamente alla fuoriuscita dall’euro della Grecia, ma pagherebbe un prezzo altissimo dall’uscita del Regno Unito. Al di là delle conseguenze economiche immediate, certamente molto gravi per questo Paese in primis, si potrebbe innescare un processo di possibile disintegrazione difficile da arrestare. Il paradosso, come dicevamo, è che non solo Londra ha benefici importanti dalla sua partecipazione all’Ue, ma anche che la presenza di un “socio riottoso” nel club europeo spesso è utile a frenare gli istinti più fortemente dirigisti che occasionalmente si affacciano a Bruxelles. Una situazione resa ancora più ironica dal fatto che il paese britannico è tra i più “diligenti” nell’Unione europea, come dimostra la buona performance nel recepire senza incorrere in infrazione le direttive europee. Insomma: a Cameron serve apparire un po’ euroscettico e tutto sommato questo lo costringe ad arricchire il dibattito europeo, ma il tutto presuppone un equilibrio delicato che non deve rompersi – e che invece oggi, per la prima volta, appare concretamente a rischio.
Fantascienza? Forse, ma come insegna l’Apprendista Stregone, meglio non cominciare qualcosa che non si sa come finire.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro