La bozza di accordo per il recesso del Regno Unito dall’Ue ha suscitato un pandemonio politico oltremanica. Diversi ministri del Governo May hanno rassegnato le dimissioni, mettendo a repentaglio la tenuta del governo e l’autorizzazione alla ratifica da parte del Parlamento. Cosa ci insegnano le 585 pagine della proposta? Per quali ragioni molti fautori del Leave appaiono del tutto insoddisfatti? Cercheremo di trarne alcune lezioni utili anche nel contesto italiano dal momento che, stando ai recenti dati dell’eurobarometro, siamo oggi il paese meno favorevole alla permanenza in Europa.
Come è ben noto, l’art. 50 del Trattato dell’Unione europea prevede che, dopo la notifica dell’intenzione di recedere, debba essere negoziato un accordo volto a definire le modalità del recesso. In mancanza di accordo, i trattati cessano automaticamente di essere applicabili, dopo due anni, salvo proroga. E’ questa l’ipotesi di c.d. hard Brexit. La bozza compra dunque del tempo – poiché era impossibile chiudere in così pochi mesi un complesso accordo commerciale – ma tenta di definire fin d’ora un percorso e fissa dei paletti che verranno a limitare l’autonomia negoziale futura del Regno Unito.
La bozza è articolata in sei parti. La prima prevede delle disposizioni generali che, tra l’altro, dispongono l’effetto diretto delle norme dell’accordo. La seconda assicura ai cittadini britannici in Ue e viceversa (oltre ai loro figli, coniugi, compagni, ecc.) di poter continuare temporaneamente a risiedere e lavorare nel paese ove si trovano. La terza contiene delle previsioni per un’ordinata separazione in diversi settori (proprietà intellettuale, cooperazione giudiziaria e di polizia, ecc.). La quarta fissa un periodo di transizione al 31 dicembre 2020 entro il quale si continuerà ad applicare il diritto Ue anche in Regno Unito (che però non parteciperà più alle istituzioni europee), con la possibilità di una sola proroga con il consenso di entrambe le parti. Durante questo periodo, il Regno Unito cercherà di negoziare l’assetto commerciale definitivo con l’Ue e con gli altri partner commerciali (con efficacia dopo la fine del periodo transitorio). La quinta parte regola i problemi finanziari: chi deve quanto a chi e quando paga. Fino al 2020, il Regno Unito resterà obbligato dal bilancio europeo e anche dopo dovrà onorare gli impegni di spesa già presi. La sesta parte, infine, disciplina la governance e prevede la possibilità di un arbitrato per regolare eventuali controversie, ferma restando l’interpretazione del diritto Ue da parte della Corte di Giustizia.
Alla bozza di accordo è poi allegato un protocollo sull’Irlanda e l’Irlanda del Nord che prevede un meccanismo chiamato di backstop, ossia una sorta di clausola di salvaguardia per l’eventualità in cui non si trovi un’intesa al termine del periodo transitorio. In tal caso, entrerà in vigore un’unione doganale fintanto che venga concluso un nuovo accordo commerciale onnicomprensivo con l’Ue. Così, sia pure con qualche maggiore controllo (che fa arrabbiare il partito unionista irlandese), si eviterà di introdurre un blocco fisico alla frontiera irlandese.
I motivi di disappunto per i duri e puri del Leave sono molteplici. Per citarne solo alcuni: fino al 2020 e chi sa per quanto tempo ancora dopo, l’UK resterà assoggettato al diritto europeo; nelle more del periodo transitorio non potrà concludere nuovi accordi commerciali; una ulteriore proroga dipende dal consenso dell’Ue; il Regno Unito non potrà porre unilateralmente fine all’unione doganale nel caso scatti il backstop; la base di negoziato futura è un accordo per una unione doganale (sostanzialmente come con la Turchia, ma un po’ peggio) che riguarda solo le merci; infine, il Regno Unito dovrà obbligarsi a non introdurre legislazioni che competano al ribasso con la normativa europea (si parla di dynamic alignment) in materia sociale, ambientale, del lavoro, della concorrenza. In sostanza, il Regno Unito dovrà vincolarsi a rispettare numerose disposizioni dell’Ue in materia commerciale e di regolamentazione, senza più avere diritto di intervenire nella fase ascendente del processo decisionale.
Un ritorno alla realtà, dopo le illusioni della grandeur che non c’è più. Cosa potevano del resto attendersi di più e di meglio? Se solo avessero capito come funziona il recesso. Non si tratta di un semplice accordo bilaterale che si può agevolmente denunciare, ma di un coacervo di rapporti giuridici, finanziari, amministrativi, commerciali stratificatisi nell’arco di sessant’anni, che possono difficilmente essere recisi (vi sono oltre 5000 leggi di origine comunitaria in vigore nel Regno Unito).
E allora quali lezioni possiamo trarne per i sovranisti di casa nostra che flirtano con l’uscita dall’euro (che, peraltro, comporterebbe l’abbandono dell’Ue)?
1) Annunciare è facile, recedere è molto difficile.
2) Negoziare l’accordo di recesso con il cronometro che batte il tempo, non mette in una gran posizione negoziale (avete mai pensato di dare la disdetta dal contratto d’affitto o licenziarvi senza un’alternativa?).
3) Esci oggi, ma paghi fino a dopodomani (il Regno Unito resta vincolato dagli impegni di spesa, anche se non ne potrà beneficiare a pieno, inoltre si vedrà restituire la quota di capitale della BEI a rate fino al 2030).
4) Dentro l’Ue forse si conta poco (e parliamo del Regno Unito), ma fuori ancora meno: di fatto l’UK resterà per molto tempo ancora vincolato dalla legislazione europea, senza più poter contribuire a formulare le norme.
5) Qualunque accordo commerciale definitivo con l’Ue o paesi terzi richiede tempi molto lunghi (per l’accordo tra Ue e Canada ci sono voluti ben 7 anni di negoziato). E, come diceva John Maynard Keynes, nel lungo periodo saremo tutti morti.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro