Le conseguenze dei fatti politici dipendono, a volte, più da come essi vengono percepiti che da come sono in realtà. Facciamo tre esempi di questi giorni: Brexit, la disputa con Polonia e Ungheria sullo Stato di diritto e il Mes. In tutti questi casi, la narrazione, spesso utilizzata cinicamente per scopi di politique politicienne, ha prevalso sulla realtà.
Benché i relativi documenti siano tutti facilmente accessibili e verificabili, alla fine conta solo ciò che si è proclamato con enfasi a uso del pubblico. Vediamo perché.
Per parlare approfonditamente dell’accordo di libero scambio tra Ue e Regno Unito è ancora presto, ma è comunque già chiaro che alla fine, più del contenuto, ha contato la retorica. Boris Johnson ha portato a casa un’intesa che poco aggiunge alle sue rivendicazioni. I servizi restano esclusi (casomai saranno oggetto di un futuro compromesso separato); sulla concorrenza normativa (gli standard in materia ambientale, sociale, del lavoro e di aiuti di stato) si è scelta una formulazione ambigua che comunque limita la possibilità per Londra di condurre una politica veramente unilaterale; e sui diritti di pesca nelle acque inglesi si è optato per una soluzione graduale. Eppure, come trapelato dalle prime indiscrezioni pubblicate dalla stampa, il premier britannico ha rivendicato con il proprio cabinet una grande vittoria (che non trova alcun riscontro nella documentazione ufficiale) sostenendo enfaticamente che finalmente il Regno Unito si riappropria del proprio futuro. Né, dal lato europeo, si è cercato di sminuire il risultato raggiunto: anzi, si è accreditata l’idea di un evento storico quando, invece, come ha scritto Robert Shrimsley sul Financial Times, è solo “la fine dell’inizio”.
La controversia con Polonia e Ungheria riguardava l’adozione di un regolamento che avrebbe dovuto condizionare l’erogazione dei fondi europei, in particolare quelli rivenienti dal Next Generation EU, al rispetto delle regole sullo Stato di diritto. Si trattava di una battaglia condotta da tempo per cercare di limitare la deriva illiberale in quei paesi che non si riusciva a contrastare con gli strumenti previsti dal Trattato Ue, i quali presupponevano l’unanimità. Dapprima si è cercato un compromesso che di fatto, però, tradiva l’intento originario ed era già difficilmente applicabile. Come se non bastasse, la minaccia del veto al bilancio ha fatto ulteriormente abbassare la guardia. Il testo finale, sancito da una dichiarazione nelle conclusioni del Consiglio europeo, ha spostato nel tempo l’efficacia del regolamento e lo ha reso ulteriormente precario. Nondimeno, tutti hanno gridato vittoria: da un lato, gli europei sbandierando un regolamento che probabilmente non potrà mai essere applicato; dall’altro, Budapest e Varsavia, consapevoli che la loro strada sempre più autoritaria potrà procedere senza grandi intoppi.
Per quanto attiene al Mes, infine, la polemica (molto, se non in toto, italiana) ha investito la nuova linea pandemica, deliberata nella scorsa primavera. I numerosi chiarimenti forniti dalle istituzioni europee hanno tolto ogni dubbio sul fatto che il nuovo strumento si differenzia dalle normali linee di credito concesse dal Mes, soggette a condizioni rafforzate (non è previsto un programma di aggiustamento macroeconomico, non è prevista una sorveglianza post-programma, ect.). Eppure, nel nostro paese è rimasta una forte opposizione a farvi ricorso non solo da parte delle opposizioni, ma anche di una parte consistente della maggioranza di governo. In assenza di argomentazioni razionali per affermarne la asserita pericolosità, alla fine si è fatto ricorso al presunto stigma che deriverebbe dall’aver fatto ricorso a questo strumento. E così si perdono 3 o 4 miliardi di maggiori interessi nell’arco di dieci anni. Con un duplice paradosso: mentre si rifiuta il Mes, si accettano (giustamente) finanziamenti come il Sure per la cassa integrazione, che vengono concessi esattamente alle stesse condizioni e, cioè, con un mero vincolo di destinazione; e d’altro lato, si alzano peana ai fondi di Next Generation EU, che comportano (anche qui, giustamente) condizionalità molto più forti.
Insomma, il modo in cui raccontiamo (e soprattutto ci lasciamo raccontare) gli eventi ha effetti cruciali sulle nostre decisioni. Nei tre esempi sopra riportati stiamo, più o meno consapevolmente, chiudendo gli occhi per dare ascolto a una narrativa che oggi fa comodo a tutti. Prima o poi, però, saremo costretti a fare i conti con la realtà che è assai diversa. Scopriremo così che senza la libera circolazione dei servizi la piazza finanziaria di Londra non è più la stessa, che Polonia e Ungheria possono continuare ogni sorta di prevaricazione a danno delle minoranze e che abbiamo sprecato alcuni miliardi di euro che avremmo potuto utilizzare per potenziare il nostro sistema sanitario. Il 2021 sarà un anno gravido di scelte, le cui conseguenze determineranno conseguenze di lungo termine sullo sviluppo del paese. È importante che la percezione torni a collimare con la realtà dei fatti.