Campioni europei? La concorrenza è il peggior modo per farli nascere, tranne tutti gli altri
22/03/2019 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

La Commissione europea ha bloccato la fusione tra Alstom e Siemens, da cui sarebbe nato il primo “campione europeo” dei sistemi ferroviari, con un fatturato congiunto superiore ai 15 miliardi di euro. Secondo la Commissaria per la concorrenza, Margrethe Vestager, l’operazione avrebbe dato vita a una società con una posizione dominante che avrebbe potuto esercitare il proprio potere economico e finanziario a danno delle imprese ferroviarie e, in ultima analisi, dei consumatori dei servizi di trasporto di persone e merci su rotaia.

“Milioni di passeggeri in tutta Europa – ha commentato Vestager – usufruiscono ogni giorno di treni sicuri e moderni. Siemens e Alstom sono entrambi campioni dell’industria ferroviaria. Senza adeguati rimedi, quest’unione avrebbe portato a prezzi più alti per i sistemi di segnalamento che garantiscono la sicurezza dei passeggeri per la nuova generazione di convogli ad alta velocità. La Commissione ha proibito la fusione perché le imprese coinvolte non hanno preso sul serio le nostre preoccupazioni relative alla tutela della concorrenza”.

Immediata, e durissima, è stata la reazione dei governi di Parigi e Berlino, che avevano sostenuto l’operazione perché, a loro avviso, solo un colosso di dimensioni europee avrebbe potuto contrastare i concorrenti internazionali, e specialmente la cinese CRRC.

Nell’imminenza della decisione, il ministro tedesco dell’economia, Altmaier, aveva chiesto un cambiamento di rotta a Bruxelles, con una revisione delle regole sulle fusioni per favorire la nascita di campioni europei. Il suo omologo francese aveva precedentemente espresso posizioni identiche, seppure in contrasto con le obiezioni a suo tempo mosse – proprio sul terreno delle potenziali conseguenze anti-concorrenziali – dal medesimo governo contro l’acquisizione della francese Stx da parte di Fincantieri. Quando fa comodo alle proprie imprese si invocano esigenze di politica industriale, quando si tratta di imprese straniere sono tutti difensori della libera concorrenza.

Di questi tempi, l’insofferenza dei governi nazionali verso l’impronta muscolare che Vestager (peraltro, con illustri precedenti, a partire da Monti) ha dato all’antitrust europeo è assai diffusa: basti ricordare la lettera che diciannove Stati membri hanno sottoscritto per chiedere di allentare il vincolo della competition policy sulle fusioni di rilevanza europea, nel nome di una politica industriale “più assertiva”.

Proprio in quest’ottica va interpretata l’ulteriore proposta di Altmaier di creare un fondo di investimento sovrano per proteggere le imprese tedesche dai takeover ostili (in chiave soprattutto anti-cinese), forse anche sulla scorta dell’analogo fondo introdotto in Italia per il contrasto alla delocalizzazione (e del quale si sono perse le tracce) e delle recenti norme per rendere più difficili le scalate di imprese quotate.

Dietro queste polemiche – prima ancora che interessi economici – ci sono opposte visioni del ruolo delle istituzioni europee (e nazionali) nel promuovere la competitività delle imprese. Da un lato, Vestager porta avanti l’interpretazione ortodossa secondo la quale l’Europa deve assolvere al duplice compito di tutelare gli interessi dei consumatori europei e di fare da palestra per le imprese, che crescono dal basso, in modo da selezionare quelle più efficienti e far nascere così i nostri campioni.

Ne discende un’applicazione rigida della politica della concorrenza, con un’attenzione puntigliosa alla struttura dei mercati e ai rischi di concentrazione eccessiva del mercato, anche solo nel breve termine. Per la verità, non si tratta di una mera interpretazione restrittiva della Commissione: è lo stesso Regolamento sulle concentrazioni che dà rilievo a criteri esclusivamente tecnici per valutare la compatibilità dell’operazione, escludendo considerazioni di politica industriale.

E invero, nel progetto iniziale era prevista una clausola di eccezione per consentire di autorizzare un’operazione volta a perseguire obiettivi prioritari nell’interesse delle comunità, ma venne espunta dal testo finale. Dall’altro lato, gli Stati membri, sentendosi schiacciati tra il neo-protezionismo americano e il crescente peso dell’industria cinese (che non gioca con le stesse regole) faticano a sopportare i vincoli europei, a partire da quelli sugli aiuti di Stato, e vorrebbero avere più margini di manovra nell’individuazione dei settori e delle imprese “strategiche”, da far crescere pilotandone lo sviluppo, anche se questo dovesse andare a scapito dei consumatori.

Benché a prima vista quest’ultima posizione possa sembrare sensata, in realtà è estremamente pericolosa. Più diamo potere agli Stati membri, più accettiamo una logica nella quale le imprese dei paesi più forti possono prevalere a danno delle altre (oltre che dei consumatori). Per non dire poi del rischio che le divergenze tra le posizioni degli Stati interessati finiscano per incrinare il mercato interno, o addirittura diano luogo a spinte disgregatrici.

La politica industriale (come insegna la nostra esperienza) è spesso la foglia di fico dietro la quale si nascondono interessi nazionali o economici di pochi. Essa serve, come ha scritto Franco Debenedetti, a scegliere i vincitori e salvare i perdenti. Checché ne dicano i detrattori dell’Ue, meglio essere nelle mani della Commissione che fa rispettare regole chiare e uguali per tutti, che lasciare a istituzioni politiche, influenzabili a loro volte dalle lobby delle imprese nazionali, le decisioni sulle concentrazioni. L’Europa ha funzionato bene fintanto che le decisioni venivano prese, con il metodo comunitario, dalle istituzioni. Negli ultimi dieci anni circa, da quando prevale il metodo intergovernativo, la costruzione si è arenata.

Per far crescere le imprese europee occorre piuttosto favorire la ricerca con una fiscalità attenta alle innovazioni e sviluppare i mercati dei capitali di rischio. E, naturalmente, senza timori, si facciano rispettare le regole del gioco anche ai concorrenti esterni all’Unione che barano. Insomma, come la democrazia, la concorrenza è il peggior criterio di valutazione delle concentrazioni, eccezion fatta per tutte quelle che si sono sperimentate finora.

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

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