Prima di uscire dall’ufficio di Presidenza della Commissione europea (seppure con la speranza di rientrarci a breve), Ursula von der Leyen lascerà sulla scrivania una pila di documenti per rivendicare le tante cose fatte in questi anni. Ce ne dovrebbe, però, essere anche un’altra con quelle da aggiustare.
Dopo un quinquennio di grandi programmi, scoppiettanti annunci e ambiziose riforme è forse venuto il momento di una pausa di riflessione per sistemare e consolidare quanto fatto finora. Benché da più parti, con l’ottimismo della volontà, si invochi una rivoluzione anche per la prossima legislatura (“occorre cambiare per non morire”), pare più realistico, anche se meno allettante, aspettarsi un’evoluzione. Facciamo un passo indietro per capire che eredità sta lasciando la Commissione von der Leyen.
Le elezioni del 2019 si erano presentate, per la prima volta, foriere di una sconfitta delle tradizionali forze europeiste, sotto attacco concentrico, da destra e sinistra, a opera dei diversi movimenti populisti e sovranisti. L’Unione usciva da un decennium horribilis: basti ricordare la crisi finanziaria e dei debiti sovrani che aveva messo a rischio la stessa sussistenza dell’euro, il referendum britannico che aveva dato concretezza alla Brexit, e il crescente sentiment antieuropeo, puntualmente registrato dall’Eurobarometro, alimentato dalla retorica contro i tecnocrati di Bruxelles, considerati lontani dalle reali esigenze dei cittadini europei. A tutto ciò si doveva aggiungere una seria crisi di leadership. Sotto la guida di José Manuel Barroso, prima, e Jean-Claude Juncker, poi, la Commissione europea non aveva certo brillato. Tant’è che il pallino durante quel difficile decennio era rimasto quasi sempre in mano agli Stati membri. Fatte salve alcune scelte di Mario Draghi, quale Presidente della BCE, gran parte delle decisioni di quel periodo furono prese sotto l’impulso della cancelliera Angela Merkel, la leader forte in Europa.
Le elezioni poi sono andate “bene”: i partiti antieuropeisti non hanno avuto l’affermazione che speravano. Popolari, socialisti e Renew hanno mantenuto la maggioranza. Seppure con un risultato risicato, sono riusciti a eleggere Ursula von der Leyen (grazie anche al supporto inatteso, tra gli altri, del Movimento 5 Stelle che, contemporaneamente, in Italia stava dando vita col Partito democratico al governo Conte-2).
Il programma del nuovo esecutivo, certamente ambizioso, indicava sei priorità di ampio respiro: (1) un green deal europeo, (2) un’Europa pronta per l’era digitale, (3) un’economia al servizio delle persone (leggasi: investimenti e crescita), (4) un’Europa più forte nel mondo, (5) promuovere il nostro stile di vita europeo (in concreto, tutela dei valori fondamentali e dello stato di diritto) (6) un nuovo slancio per la democrazia europea.
Nei fatti, l’azione della Commissione si è concentrata eminentemente sui primi due obiettivi che hanno rappresentato i pilastri della politica economica e industriale in questo quinquennio. Con quali risultati?
Una questione di metodo
Nelle intenzioni della Presidente, Green Deal e transizione digitale avevano una funzione politica (trovare un terreno di compromesso tra i popolari, i socialisti e le altre componenti della maggioranza) e una strategica (posizionare l’Europa come leader nei settori ritenuti cruciali). La necessità di affrontare crisi terribili e imprevedibili, come la pandemia e la guerra, anziché far deragliare i propositi di Bruxelles li ha rafforzati: o, meglio, von der Leyen ha fatto di tutto per “non sprecare una buona crisi” (cit. Rahm Emanuel) e approfittarne per dare ulteriore respiro alle proprie politiche.
Le scelte tattiche e strategiche della Commissione uscente sono chiare e comprensibili, i risultati rivedibili. Occorre anzitutto soffermarsi sul metodo: la transizione ecologica e digitale è stata perseguita attraverso un’azione di regolamentazione a 360 gradi che nel tempo ha assunto i connotati sempre più evidenti della vecchia politica industriale. E ciò per una ragione che potremmo definire “ideologica”: fare della regolamentazione e dell’imposizione di target ambientali un elemento identitario dell’Unione europea. Quindi non solo utilizzare i poteri di Bruxelles per indirizzare investimenti e comportamenti di imprese e individui, ma fare dell’Europa un modello di successo che il resto del mondo non potrà non seguire (il cosiddetto “effetto Bruxelles”). In entrambi i campi, ambiente e digitale, la Commissione ha così prodotto regole su regole, aumentando di volta in volta – nel gergo brussellese – le proprie “ambizioni”.
Un Deal sempre più Green
Per quanto riguarda la decarbonizzazione, il Green Deal ha visto un progressivo incremento dei target: l’obiettivo di riduzione delle emissioni al 2030 è salito dal 40 al 55 per cento, e parallelamente sono stati incrementati i traguardi relativi alle fonti rinnovabili (dal 32 al 42,5 per cento) e all’efficienza energetica (dal 9 all’11,7 per cento). Questi obiettivi generali sono stati accompagnati da un proliferare di norme settoriali: la direttiva case green, il bando al motore endotermico dal 2035, la riforma del mercato delle emissioni, il dazio sul contenuto carbonico dei beni importati, per citare solo i principali. Ma tutto ciò ha generato discussioni, conflitti di interesse e più problemi che soluzioni.
Due esempi tra i molti possibili. Prendiamo il divieto di immatricolare veicoli leggeri con emissioni di CO2 superiori a zero a partire dal 2035. La scelta di misurare le emissioni al tubo di scarico, anziché sul ciclo vita del carburante, di fatto equivale a imporre l’auto elettrica in quanto impedisce l’utilizzo del motore termico con carburanti a basse emissioni che pure potrebbero garantire il medesimo risultato (fatto salvo il modesto spiraglio lasciato aperto per gli e-fuel). Ma l’industria automotive europea, che occupa direttamente circa 2,4 milioni di lavoratori in tutta Europa di cui quasi 900 mila in Germania, è terribilmente indietro sull’elettrico: è invece competitiva sulla produzione di motori convenzionali a basse emissioni, anche perché è in questa direzione che ha spinto la stessa politica europea con la definizione degli standard euro. Quindi l’industria si è ribellata, visti gli ingenti costi sociali che avrebbe una politica il cui principale effetto economico sarebbe quello di accrescere la dipendenza europea dall’estero (in particolare dalla Cina), non solo perché i produttori stranieri sono più competitivi, ma anche perché la nicchia in cui gli europei eccellono verrebbe cancellata con un tratto di penna. Tale disposizione ha generato vasto dibattito e presuppone una revisione nel 2026: decidere che fare sarà una delle scelte cruciali della nuova Commissione.
Allo stesso modo, nel 2026 dovrebbe decollare la fase di piena applicazione del cosiddetto Carbon Border Adjustment Mechanism (Cbam), cioè il dazio sulle importazioni in proporzione al loro contenuto carbonico. Tale misura, di applicazione pratica estremamente complessa, dovrebbe andare assieme al graduale azzeramento della distribuzione gratuita di quote di emissione a favore delle industrie energivore. Ciò rischia di danneggiare soprattutto le imprese esportatrici, che si troveranno a competere sui mercati esteri con produttori non europei che non devono sborsare su quei mercati il costo della CO2, con l’effetto paradossale di favorire la delocalizzazione delle produzioni destinate all’export e potenzialmente aumentare le emissioni.
Insomma: la nuova Commissione dovrà stabilire se e come applicare (ovvero se e come correggere) alcune decisioni fondamentali volute dalla Commissione precedente, e rese ancora più estreme nell’ambito della risposta alla crisi energetica. Ciò ha creato un contesto di continua evoluzione e complicazione delle regole, con direttive e regolamenti che sostituivano e aggiornavano le norme precedenti senza che queste fossero state pienamente metabolizzate e in alcuni casi neppure attuate. Basta pensare al processo di approvazione dei piani nazionali energia e clima, avviato nel 2018 e tuttora in itinere perché nel frattempo sono cambiati gli obiettivi. Col risultato che i piani definitivi saranno noti, se va bene, nel 2025, a pochi anni di distanza dal 2030, avendo meno tempo per essere attuati di quanto ne sia servito per scriverli.
I signori delle regole
Qualcosa di simile si è verificato nel settore digitale. Tradizionalmente l’Europa aveva affrontato i temi dell’economia digitale su tre terreni: quello classico della politica di concorrenza, la disciplina dei consumatori (con norme specifiche per il commercio elettronico) e, più recentemente, la protezione dei dati (il Gdpr è del 2016). Questo approccio è apparso però insufficiente, visto che – agli occhi della Commissione – era impossibile imbrigliare lo strapotere delle grandi piattaforme online, e contemporaneamente non emergevano alternative europee ai colossi americani e cinesi. Così anche su questo fronte è partito un florido filone regolatorio. I tre atti principali sono il Digital Services Act (Dsa), il Digital Markets Act (Dma) e l’AI Act dedicato all’intelligenza artificiale. Non è possibile qui entrare nel merito di normative complesse ed eterogenee. Il punto però è che l’Ue ha deciso di incoraggiare la transizione digitale introducendo una sorta di doppio binario, con regole specifiche per gli operatori online e, tra questi, obblighi e divieti ad hoc per quelli di grandi dimensioni. È un po’ come se Bruxelles avesse detto: so che questi soggetti sono colpevoli, ma non ho gli strumenti per dimostrarlo seguendo il percorso canonico (anche se questo non è del tutto vero, come dimostrano le numerose sanzioni antitrust contro le Big Tech). A ogni modo, constatata l’impotenza, l’insufficienza o l’inadeguatezza della disciplina previgente, la Commissione ha promosso iniziative legislative per tagliare le unghie agli operatori online e imporre quei modelli di business e quelle condotte che si ritengono più adeguate. Ignorando, in tal modo, che la concorrenza consiste anche nella sperimentazione di nuovi comportamenti e modelli di business, oltre che prodotti. Questo atteggiamento ha raggiunto l’estremo con l’Ai Act che pretende di regolamentare in modo pervasivo – ben più del condivisibile divieto di riconoscimento facciale indiscriminato o del tracciamento dei contenuti – un settore ancora magmatico e in evoluzione come l’intelligenza artificiale, affiancando prescrizioni orizzontali a interventi più graduati rispetto al rischio delle singole tecnologie o dei singoli utilizzi.
La logica di fondo è ben esemplificata da un tweet lanciato da Thierry Breton, il commissario per il mercato interno, nel giorno dell’accordo sull’Ai Act. Il tweet mostra un grafico a torta, che ritrae i continenti che hanno adottato una regolamentazione dell’intelligenza artificiale: in blu l’Ue, in arancione gli altri. Il grafico è interamente blu. Non gli è venuto in mente che questo stesso grafico potrebbe essere adattato – scambiando i colori – ai continenti che si trovano alla frontiera tecnologica dell’intelligenza artificiale, cioè i continenti nei quali l’innovazione viene prodotta. Qui l’Europa non esprime leadership, ma assenza.
Beninteso, sebbene l’iper-regolamentazione sia probabilmente una delle cause di questo problema, non ne è certamente la prima e forse neppure la più importante. Un interessante lavoro di Anu Bradford argomenta che la causa dell’arretratezza europea sta altrove: la frammentazione del mercato digitale, la normativa fallimentare, la cattiva gestione dei flussi migratori, e altro. Non c’è dubbio che l’enfasi posta sul preteso deficit di regolamentazione abbia distratto l’attenzione da interventi meno sexy, meno traducibili in slogan, però più utili sia a stimolare l’innovazione digitale sia a promuovere il dinamismo imprenditoriale in generale. E questo vale probabilmente anche per gli altri settori nei quali l’attività regolatoria della Commissione von der Leyen è stata più intensa.
Il vento sovranista a Palazzo Berlaymont
Ne esce, dunque, l’immagine di un’Unione europea sempre più dirigista in politica industriale e interventista in politica economica. Per completare il quadro, dovremmo aggiungere che è divenuta anche protezionista in politica commerciale.
In questi anni, infatti, la Commissione ha rivendicato per sé, con insistenza, un ruolo molto più geopolitico, con l’obiettivo dichiarato di rafforzare il peso dell’Unione sullo scacchiere internazionale e soprattutto di assicurarne la “autonomia strategica”, non solo nelle tradizionali politiche di difesa e sicurezza, ma più in generale nel settore economico, commerciale, tecnologico, ambientale ed energetico. Insomma, il nuovo vento sovranista che spirava in Europa ha fatto ingresso anche a Palazzo Berlaymont. Per lo più si è trattato di retorica, ma non solo.
Le normative commerciali volte a proteggere lo spazio economico europeo e contrastare i competitor strategici sono divenute sempre più numerose: dai controlli sugli investimenti alle nuove misure commerciali per contrastare i sussidi di Stati esteri, dallo strumento anti-coercizione per affrontare i conflitti commerciali alle norme per limitare l’accesso agli appalti pubblici alle aziende di Paesi terzi i cui governi non consentono alle imprese europee di partecipare alle loro gare d’appalto pubbliche.
Al tempo stesso, sul piano industriale sono state adottate misure per rafforzare l’autosufficienza e l’indipendenza dell’Europa in aree critiche, come i semiconduttori (l’European Chips Act mira a portare dal 10 per cento al 20 per cento entro il 2030 la quota di microchips prodotti in Europa), le batterie (con sovvenzioni per contrastare la concorrenza americana e cinese), l’idrogeno e per assicurare l’approvvigionamento delle materie prime.
E anche i vincoli agli aiuti di Stato, che da sempre sono stati uno dei capisaldi della politica di concorrenza Ue, sono ormai visti con fastidio da molti a Bruxelles, oltre che nelle capitali europee, perché ostacolano la creazione di campioni europei e non consentono di contrastare le aggressive politiche industriali di Usa e Cina. Solo dopo aver alleggerito il divieto di aiuti di stato ci si è resi conti che, in tal modo, si favorivano gli Stati con maggiore spazio fiscale, a danno delle imprese provenienti da paesi coi conti pubblici più fragili (come l’Italia). Nel solo 2022, tra strumenti ordinari e straordinari (legati al Covid e alla crisi energetica), la Germania ha erogato aiuti di Stato per oltre 70 miliardi di euro (1,8 per cento del Pil) su un totale di circa 228 miliardi al livello dell’intera Ue (1,4 per cento del Pil). L’Italia ha speso 26 miliardi (1,4 per cento del Pil). È evidente che questo mette a repentaglio il mercato interno e che occorre trovare un modo per riassorbire tale divaricazione.
Le crisi e l’Europa
In definitiva, dunque, quella che si è appena conclusa è stata una legislatura molto ricca di iniziative e di provvedimenti, grazie all’iperattivismo della Commissione. Senza dubbio, gli atti più rivoluzionari sono quelli imprevisti, dettati più dalle contingenze che dalle strategie. Ormai è d’obbligo scomodare Jean Monnet che ci ha ricordato come i grandi passi in avanti l’Unione li abbia fatti per lo più sotto la pressione di crisi esterne.
La crisi pandemica, per esempio, ha indotto a rompere gli indugi, superando il tabù del debito comune per finanziare e sovvenzionare un massiccio piano di spesa pubblica degli Stati membri. Un vasto programma che, dati anche i ristretti tempi di decisione degli investimenti da effettuare, non sempre ha comportato delle assennate scelte, ma che ha certamente contribuito in modo decisivo a mutare la narrazione dell’Ue riconquistando i cuori di molti cittadini europei. Lo stesso può dirsi per la crisi energetica e la risposta congiunta all’invasione russa dell’Ucraina. Anche qui ci sono state luci e ombre: la crisi ha creato le condizioni perché l’Europa riducesse la propria dipendenza dalla Russia e ha stimolato un ampio dibattito sull’integrazione dei mercati. Contemporaneamente, ha spinto a riforme (come quella del mercato elettrico o la creazione di meccanismi di approvvigionamento comuni) e misure temporanee (come il price cap sul gas) che forse avrebbero richiesto qualche surplus di riflessione. Le une, infatti, sono troppo segnate dalla contingenza e rischiano di dover essere riviste, le altre – pur essendo state pensate in chiave emergenziale – alla fine sono rimaste e rischiano di creare una sovrastruttura di regole obsolete.
Grandi speranze
Oggi però tutto questo è passato e l’Unione si trova dinanzi a nuove scelte fondamentali, stretta sul piano industriale tra la concorrenza americana e quella cinese, preoccupata dall’aggressivo espansionismo russo e dal rischio di un neoisolazionismo americano in una ipotetica presidenza Trump 2, a metà del guado in una transizione ecologica e digitale imposta a tappe forzate che nel 2026, con la fine dei fondi erogati dal dispositivo per la ripresa e resilienza, rischia di arenarsi (il divario secondo le stime di Bruegel sarebbe di 180 miliardi di euro, secondo altri addirittura di 480 miliardi).
C’è convergenza sui problemi da affrontare e forse anche sulle ipotetiche soluzioni. Ma come metterle a terra? A parole tutti auspicano grandi cambiamenti, ma quando si giunge al dunque non si trova facilmente il consenso per realizzarli. Ciascuno Stato membro pensa per sé. E nulla fa ritenere che le elezioni appena concluse cambino le cose.
In particolare, sempre più spesso si sente chiedere, a gran voce, di finanziare i cosiddetti beni comuni con fondi europei, replicando e ampliando il programma Next Generation EU: non solo per completare il Green Deal, ma anche rafforzare l’industria europea, acquisire l’agognata autonomia strategica nei settori critici, finanziare la difesa comune. E chi più ne ha più ne metta. Tutte spese indubbiamente di difficile realizzazione a carico esclusivo dei bilanci nazionali, specie ora che si applicheranno le regole del (nuovo) Patto di Stabilità e Crescita. Con quali fondi europei potranno essere sostenute queste spese? Debito comune, si risponde, ma nessuno dice a fronte di quali risorse proprie. Nessuno sembra pensare che queste iniziative possano essere finanziate in larga parte con fondi privati, come avviene altrove. Sembrerebbe dunque esservi un consenso sull’aumentare i fondi versati al bilancio europeo, ma pare difficile trovare la quadra e convincere tutti a un bilancio veramente da Stato federale. Del resto, se ne parla da quasi 50 anni (il MacDougall Report del 1977 ipotizzava il passaggio a contributi pari al 2-2,5 per cento del Pil dell’Ue in una prima fase per poi arrivare al 5-7 per cento), ma siamo ancora all’1,24 per cento. Senza contare che non è mai chiaro se chi chiede un aumento del budget comune ha in mente una contemporanea riduzione dei bilanci nazionali (e quindi una effettiva cessione di sovranità) o solo un incremento della spesa pubblica complessiva (meglio se in deficit, poi si vedrà chi e come rimborserà i debiti). All’auspicio manca quindi un’informazione fondamentale: si intende pestare i piedi ai governi nazionali oppure ai contribuenti?
Un rapporto dopo l’altro
Consapevoli delle difficoltà che ci attendono, i leader uscenti dell’Ue hanno commissionato due rapporti sul futuro dell’Unione: Ursula von der Leyen ha chiesto a Mario Draghi di occuparsi della competitività europea, mentre Charles Michel ha incaricato Enrico Letta di indicare il da farsi per completare il mercato interno. Quest’ultimo rapporto (denominato significativamente “Much more than a market”) è già stato pubblicato; l’altro non ancora, ma i contenuti fondamentali sono stati rivelati nel discorso dell’ex premier a La Hulpe. Non è la prima volta che i vertici delle istituzioni europee si sforzano di offrire delle soluzioni tecnicamente impeccabili. Il problema è realizzarle. Basti pensare, per fare solo qualche recente esempio relativo all’approfondimento dell’Unione economica e monetaria, al rapporto dei quattro Presidenti (2012), seguito da quello dei cinque Presidenti (2015) e dal documento di riflessione della Commissione (2017), che contengono spunti interessanti ma rimasti, tutto sommato, lettera morta.
In questo caso il vero problema è convincere gli Stati a fare un passo indietro. Ci serve l’Unione dei capitali (rectius: dei risparmi e degli investimenti, come l’ha definita Letta), ma poi quando se n’è parlato al Consiglio Ue, Svezia, Lussemburgo e Irlanda – ciascuno con valide ragioni di interesse nazionale – hanno detto no. Tutti vogliono i campioni europei (abbiamo più di trenta società di telecomunicazioni in Europa, ha osservato Draghi), ma, in quest’era di sovranismi economici, chi accetterebbe di perdere il controllo a favore di un altro operatore straniero? E ancora: sì alle economie di scala, ma siamo certi che così facendo non finiamo per pregiudicare irreparabilmente i consumatori?
Una legislatura costituente?
Le difficoltà nel passaggio dalla teoria alla pratica non sembrano preoccupare il Presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz che, in un recente articolo a doppia firma per il Financial Times, hanno chiesto il rafforzamento della sovranità europea, il completamento del mercato unico e maggiori investimenti in beni comuni.
In questo scenario di ottimismo della volontà, c’è perfino chi pensa che la prossima possa essere una legislatura costituente. Dopo la Conferenza sul Futuro dell’Europa, conclusasi nel maggio 2022 con la presentazione di una relazione finale contenente 49 proposte e 326 misure destinate ai Presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione, è sembrato un momento propizio per rimettere mano ai Trattati. Nello scorso mese di novembre, il Parlamento ha approvato – per la verità, con una esigua maggioranza – una risoluzione con dettagliate proposte di riforma dei trattati europei. Tra tutte la più importante sarebbe certamente quella che comporterebbe la sistematica rimozione del voto all’unanimità nel Consiglio, da sostituirsi con il voto a maggioranza qualificata. Una modifica essenziale per poter poi procedere speditamente all’allargamento nei Balcani e a est. Un allargamento necessario per impedire che l’influenza russa si estenda ulteriormente ai nostri confini. Grandi speranze che certamente condividiamo, ma che non sembrano tener conto della reale situazione attuale. In quest’era di nazionalismi, se non succede qualcosa che forza la mano agli Stati, come si può pensare a una riforma che presuppone importanti cessioni di sovranità?
Fare ordine
Se dunque non sembrano esserci le condizioni per un vaste programme, alla nuova Commissione toccherà anzitutto fare ordine dopo questa ondata di normative, spesso varate sulle ali dell’emergenza, e poi stratificate. Sono almeno tre gli ambiti nei quali è necessario un lavoro, più che di innovazione, di razionalizzazione.
Il primo è quello ambientale, che non a caso è stato anche uno dei temi più discussi in campagna elettorale. Il ripensamento in atto, non tanto degli obiettivi climatici quanto degli strumenti per perseguirli, non è legato solo all’attacco dei partiti euroscettici o sovranisti che cavalcano lo scontento per attirare i voti dei gruppi sociali che si ritengono danneggiati dal Green Deal (es.: gli agricoltori). La stessa von der Leyen, che pure era stata la più convinta sponsor del pacchetto climatico assieme al suo contestato vicepresidente Frans Timmermans, ha fatto una notevole retromarcia negli ultimi mesi. Adesso si tratta di distinguere il bambino dall’acqua sporca, salvaguardando la peculiarità europea di essere un’economia a elevato tasso di sostenibilità, senza però sacrificare le prospettive di crescita all’unilateralismo climatico. Quindi, sarà necessario mettere mano alle tante regole ambientali per renderle coerenti le une con le altre, ma anche economicamente e socialmente sostenibili. Non si tratta – vale la pena ribadirlo – di fare passi indietro nella strategia di fondo, ma di calibrare meglio i mezzi utilizzati.
Questo non significa soltanto, come peraltro si è in parte creduto nel passato, introdurre strumenti finanziari di sostegno al reddito dei lavoratori che potrebbero perdere il posto. Significa soprattutto interrogarsi su come gli sforzi dell’industria possono essere valorizzati e i settori di specializzazione manifatturiera spinti nella direzione giusta, senza esserne travolti. L’automotive, la siderurgia, la meccanica e la stessa agricoltura hanno fatto passi da gigante in termini di sostenibilità. Non è eccessivo dire che oggi abbiamo in Europa l’industria più pulita al mondo. Sarebbe assurdo distruggere questo primato semplicemente perché si mette una croce su intere categorie merceologiche, per esempio con l’imposizione dell’auto elettrica o come si è in parte fatto con gli imballaggi (scongiurando solo all’ultimo un colpo di mano che avrebbe distrutto un decennio di lavoro nell’economia circolare). La chiave che la Commissione dovrà trovare è quella della riconduzione a unitarietà e coerenza del quadro giuridico in materia climatica: e ciò richiede uno sforzo verso la neutralità tecnologica, cioè la rinuncia a voler dettare minuziosamente, settore per settore e processo per processo, le modalità attraverso cui abbattere le emissioni (così come aveva fatto creando il mercato dei certificati di emissione). Questo implica anche un chiarimento su alcuni temi controversi, a partire dal nucleare: la Commissione ha fatto un passo avanti inserendolo nella tassonomia, ma non lo ha ancora parificato a tutti gli effetti alle fonti rinnovabili. Sul tema vi sono divergenze sia tra gli Stati membri, sia tra le forze politiche: eppure, una parola definitiva sarebbe un importante cambiamento nel disegno della politica climatica europea e anche nel rapporto con gli altri maggiori emettitori (quali Usa e Cina).
Un secondo settore di intervento è il digitale. Le grandi riforme introdotte in questi anni difficilmente possono essere messe in discussione, ma stanno attraversando una delicata fase di attuazione. Dal modo in cui verranno tradotte e applicate dipenderanno vaste conseguenze. È importante stabilire delle regole di ingaggio per le piattaforme online che non ne mutino radicalmente il modello di business rispetto a ciò che fanno in tutto il resto del mondo. E soprattutto è importante riconoscere che la pluralità dei modelli organizzativi è la radice della concorrenza. Stabilire invece che qualunque deviazione da ciò che Bruxelles ritiene preferibile costituisce di per sé un abuso, quanto meno se commesso da soggetti di grandi dimensioni, significa privare il mercato di una grande leva di innovazione. Basti pensare allo scontro tra sistemi operativi aperti (come Android) o chiusi (come Ios). Si tratta di due modelli alternativi che privilegiano aspetti differenti del rapporto coi clienti: la pluralità delle app nel primo caso, la sicurezza nell’altro. Cercare di fonderli rischia di privare i consumatori di un grado di libertà, anziché assicurare loro maggiori tutele.
In terzo luogo, resta aperto il cantiere dell’Unione economica e monetaria: è stato da poco adottato il nuovo Patto di stabilità, con un compromesso che ha visto gli europarlamentari italiani votare in massa contro (“abbiamo finalmente unito la politica italiana”, ha commentato con ironia il Commissario agli Affari economici, Paolo Gentiloni). Resta da vedere come verranno applicate in concreto dalla nuova Commissione queste regole. In particolare, attendiamo di capire se partiranno e che esito avranno le procedure di infrazione nei confronti dei numerosi Stati (Italia in primis) in violazione dei parametri. Ci sono poi molte partite aperte, dal MES al completamento dell’unione bancaria, dall’unione del mercato dei capitali alla creazione di Safe Asset europei (che vanno di pari passo con una diversa politica di bilancio Ue).
Ecco: le nuove istituzioni europee dovranno rimettere in moto la normalità che abbiamo perduto negli anni dell’emergenza. Anziché coltivare ambizioni rivoluzionarie che rischiano di essere disattese con pesanti ripercussioni, meglio concentrarsi su una vasta opera di manutenzione, precisazione, semplificazione e correzione dell’esistente, tenendo a mente l’antico insegnamento dei padri fondatori che l’Europa si fa a piccoli passi. Più che una legislatura costituente, serve una legislatura ricostituente.