Capitalismo di guerra, economia per la pace
15/10/2025 di Intervista ad Alberto Saravalle a cura di Beatrice Pecchiari per Comprendere .

Gli ultimi anni sono stati caratterizzati dal graduale affermarsi delle politiche sovraniste e da una crescente conflittualità sul piano economico che ha finito per minare l’ordine economico internazionale. “Benché le avvisaglie di questo fenomeno fossero chiare, se ne parlava ancora troppo poco” afferma Alberto Saravalle, professore di Diritto dell’Unione europea all’Università di Padova e co-autore, con Alberto Stagnaro, di Capitalismo di guerra. Perché viviamo già dentro un conflitto globale permanente (e come uscirne). “Le reiterate crisi – prima quella finanziaria e dei debiti sovrani, poi quella pandemica e da ultimo quella energetica – hanno offerto il pretesto ai governi, in nome dell’emergenza e della sicurezza nazionale, per tornare a esercitare un ruolo preponderante nell’economia, a scapito della concorrenza, del mercato e delle regole. Il mercato non è più un luogo neutrale dove si incrociano domanda e offerta, secondo criteri di allocazione efficiente: le principali scelte strategiche (forniture, localizzazione delle imprese, investimenti, ecc.) sono sempre più condizionate da decisioni politiche”. Il sistema economico si sta, di fatto, adattando a un “possibile” conflitto: “si accorcia la supply chain (eufemisticamente si parla di friendshoring o de-risking), si differenziano le forniture energetiche, ci si approvvigiona delle materie prime critiche, cercando di controllare i flussi dei dati trasmessi all’estero, limitando le forniture di prodotti ad alta tecnologia (microchip
in particolare) a Paesi ritenuti competitor strategici, bloccando gli investimenti esteri e persino quelli in uscita. Nel corso del solo 2024, 1.913 delle 2.555 misure adottate in materia commerciale in tutto il mondo (pari al 75%) ha comportato restrizioni degli scambi”. Il meccanismo di questo disaccoppiamento, noto come “decoupling”, ha conseguenze devastanti sul
piano economico: “cambia la struttura dei mercati (ci si rifornisce da chi si può e non da chi si vuole), lievitano i costi (col rischio di nuovi picchi di inflazione) e si rallentano i processi innovativi”.

In questo scenario, il ritorno dello Stato in economia è tutt’altro che una necessità. «Viene presentato come tale ricorrendo all’annosa questione dei fallimenti del mercato cui occorrerebbe porre rimedio. Si è iniziato con i salvataggi durante la crisi finanziaria e quella pandemica per poi ampliare il perimetro delle partecipate pubbliche (che peraltro in Italia era già significativo). La politica industriale è tornata in auge, dimenticando i molteplici fallimenti della mano pubblica che avevano indotto, a partire dagli anni Ottanta, a diminuire il peso dello Stato in economia. Perfino negli Stati Uniti – il Paese del libero mercato per antonomasia – si parla ora di “capitalismo di Stato”, dopo le ultime decisioni dell’amministrazione Trump: la golden share per US Steel, l’accordo che prevede il pagamento del 15% dei ricavi di Nvidia e AMD al governo americano e l’acquisizione del 10% di Intel. A tutto ciò si accompagna una forte politicizzazione delle principali scelte economiche in nome dell’interesse nazionale, che è all’origine di scelte spesso irrazionali, contraddittorie e opache». Questo fenomeno, della politicizzazione delle scelte economiche, interessa soprattutto i due principali terreni di competizione fra gli Stati, tecnologia ed energia. “Gli Stati Uniti, per esempio, da anni cercano di inibire alla Cina l’accesso ai microchip più avanzati, un asset per la difesa, l’intelligenza artificiale e i sistemi di sorveglianza. La corsa agli investimenti per assicurarsi la leadership nel settore dell’intelligenza artificiale spinge i governi a garantire sussidi per centinaia di miliardi. E lo stesso avviene per l’energia e la transizione ecologica. La preminenza nelle tecnologie delle energie pulite rappresenterà un vantaggio competitivo nel prossimo futuro, mentre in campo energetico, dopo l’invasione dell’Ucraina, le politiche di sicurezza hanno sostituito quelle volte ad assicurare la sostenibilità. Dinamiche che, invece di accelerare le transizioni ecologica e digitale, finiscono per rallentarle e renderle più costose e conflittuali”. A questi fenomeni è legata la “guerra dei sussidi” cui abbiamo assistito negli ultimi anni: “Aveva tenuto banco all’epoca dell’Inflation Reduction Act ma sembra ormai soppiantata dalla guerra dei dazi, inducendo gli operatori stranieri a stabilirsi negli Stati Uniti. Ma la rilocalizzazione è tutt’altro che facile: i costi sono notevoli, i tempi lunghi, le incertezze molteplici e, soprattutto, si rischia di non trovare la manodopera dotata delle skill necessarie”.

Assistiamo a una ridefinizione dei flussi finanziari determinata da dinamiche geopolitiche: “Le imprese private si stanno rapidamente abituando a tener conto di nuove tipologie di rischi nelle proprie decisioni strategiche, ma c’è ancora molta strada da fare. Occorre ridisegnare la propria supply chain in modo da limitare o diversificare i rischi; deve essere soppesata la
possibilità di realizzare delle operazioni di M&A, anche all’interno dell’Ue o in Paesi politicamente alleati; va considerato l’ingresso nel capitale di investitori stranieri, poiché la mera partecipazione di un’impresa di stato cinese potrebbe infatti mettere a repentaglio le esportazioni negli Stati Uniti (come sta accadendo alla Pirelli per le cyber tyres). Di recente, ad esempio, due grandi società italiane hanno firmato un contratto che, per la prima volta, prevede la possibilità di recedere in caso di guerra che, ai sensi del Trattato Nato, possa comportare un intervento armato del nostro Paese. Questi rischi dovranno a breve entrare anche nella comunicazione finanziaria”. In questo quadro, è complesso definire lo spazio per la concorrenza: “Per quanto il mondo sia cambiato in questi anni, non possiamo dire che la concorrenza sia stata scalzata integralmente. Certo abbiamo avuto lunghi periodi in cui in Europa, con la scusa dell’emergenza (prima pandemica e poi
energetica) si è data carta bianca agli aiuti di stato grazie al temporary framework, avvantaggiando gli Stati che avevano maggior spazio fiscale. Nel 2023, ad esempio, la Germania ha erogato più di 50 miliardi di euro di aiuti di Stato, su un totale a livello Ue di circa 186 miliardi”.

In ogni caso, come tutte le situazioni di crisi, anche questa fase di guerre economiche può trasformarsi in un’opportunità per l’Ue. “Dinanzi alla perdita di credibilità degli USA per le reiterate violazioni degli accordi internazionali sul commercio e al conseguente indebolimento del dollaro come valuta di riferimento, l’Ue ha la possibilità di imporsi come potenza affidabile,
aperta agli scambi internazionali, con un significativo mercato interno, robuste e indipendenti istituzioni finanziarie ove la rule of law viene sostanzialmente rispettata. Rispetto a questo la Commissione Ue ha svolto un ruolo cruciale, evitando di lasciarsi trascinare in una politica di ritorsioni e guerre commerciali, riuscendo anche a mantenere l’unità interna tra gli Stati membri. Per giocare questa partita, è necessario accelerare ulteriormente nel processo di apertura agli scambi internazionali, concludendo rapidamente importanti accordi di libero scambio con il Mercosur, l’India, il Messico, l’Australia, abolendo barriere non tariffarie e rimuovendo ostacoli e restrizioni. Insomma, leading by example”.

Prossimi appuntamenti

Sabato 22 novembre Carlo Stagnaro ed io presenteremo Capitalismo di guerra a Serralunga d'Alba in dialogo con Paola e Oscar Farinetti. La presentazione si svolgerà nel Teatro della Fondazione Mirafiore e avrà inizio alle ore 18:30.

Video

Il video del mio intervento a Quante Storie su su Rai 3.

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