Contro la corruzione la ghigliottina non basta
22/07/2014 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Dopo due settimane nelle quali ha tenuto banco su tutti i giornali, il dibattito su corruzione e appalti pubblici sta gradualmente scemando. Delle molte voci che si erano levate scandalizzate, invocando nuove leggi, poteri speciali e riforme epocali, a breve resterà solo un vago ricordo. Tutt’al più – temiamo – le attese riforme si tradurranno in un ulteriore aggravio degli adempimenti burocratici.

Forse questa sembrerà una visione troppo cinica, ma gli scandali di queste settimane che hanno fatto inevitabilmente rievocare Tangentopoli (anche per la coincidenza di taluni indagati) inducono molti a ritenere che questi vent’anni siano trascorsi invano. Solo che, mentre nel 1992 il paese visse le gesta della Procura di Milano come una sorta di catarsi contro la cattiva politica e il “Palazzo”, oggi prevale lo sconforto. In realtà qualcosa è cambiato. Rispetto ad allora, le tangenti sono un fenomeno meno “sistemico”, meno connaturato alla “normalità”, per quanto patologica, del sistema politico: oggi sarebbe infatti impensabile un’arringa come quella che Bettino Craxirivolse ai colleghi parlamentari: “chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra”.

Per affrontare seriamente il problema occorre fare attenzione a non lasciarsi influenzare dal forte sentiment di antipolitica con il quale queste vicende sono state vissute dall’opinione pubblica. Non si creda che per contrastare la corruzione basti la ghigliottina. Durante queste ultime legislature, per la verità, sono già state introdotte numerose norme anti-corruzione che spesso si sono tradotte in maggiori adempimenti per le imprese, senza grandi risultati, come dimostrano i recenti scandali. Cerchiamo piuttosto di capire come si possa contenerne la diffusione attraverso il normale enforcement delle leggi.

I dati di Transparency International collocano il nostro paese molto in basso nelle classifiche internazionali che determinano il grado di corruzione percepita. Perché?Ovviamente non può dirsi vi sia una sorta di genetica predisposizione degli italiani. Invero, corruttori (e corrotti) saranno certamente individui antisociali e disonesti, ma non sono pazzi: sono razionali. Se agiscono in un certo modo, lo fanno tenendo conto di costi (non solo quello materiale della “tangente”, ma anche il rischio di essere smascherati) e benefici. Il corruttore, dunque, è disposto a pagare la bustarella perché ritiene di assicurarsi un guadagno più che sufficiente a compensarla. Il corrotto, invece, la accetta perché ha il potere di elargire dei favori (non necessariamente il diritto di farlo), e intascandola può migliorare significativamente il proprio tenore di vita. Come ha scritto il premio Nobel recentemente scomparso Gary Becker, uno dei pionieri nello studio dell’economia del crimine, “l’unico modo per ridurre permanentemente la corruzione è tagliare drasticamente il ruolo dello Stato nell’economia”.

Per contrastare efficacemente la corruzione occorre agire sul piano delle “regole”, non solo delle “sanzioni”, riducendone i payoff attesi e aumentandone i costi.

In concreto? In primo luogo, seguendo le indicazioni di Becker, limitando la discrezionalità all’interno della quale spesso si annida l’intreccio tra politica e affari. Anzitutto intervenire sulla spesa pubblica, ma non solo. Non è un caso se molti dei più recenti scandali casi nel nostro paese (dall’Expo 2015 al G8 della Maddalena) siano legati all’adozione di procedure emergenziali che hanno slegato gli appalti dalla consuete procedure a evidenza pubblica. Va da sé che ogni sforzo verso la maggiore trasparenza spinge nella stessa direzione.

In secondo luogo, non è che i controlli in Italia manchino: è che sono sovente più formali che sostanziali. Per contrastare il malaffare non servono molti adempimenti, ma pochi e realmente chirurgici. Il senso dei controlli non dovrebbe essere il rilascio di un certificato, ma accendere delle spie (le cosiddette “red flag“) sulle situazioni a rischio. I funzionari preposti ai controlli dovrebbero pertanto essere responsabilizzati (e valutati) in tal senso. Meglio se fossero dei funzionari di un’agenzia con competenze specifiche al riguardo.

In terzo luogo si deve dare maggiore certezza della pena. Una giustizia lenta, nella quale la prescrizione del reato è una ragionevole aspettativa, ne vanifica l’effetto deterrente. Certo è utile introdurre anche alcune nuove fattispecie di reato (l’auto riciclaggio), ma soprattutto occorre al più presto reintrodurre una efficace disciplina del falso in bilancio, in pratica reso praticamente inapplicabile nel passato recente. L’importante è far sì che i colpevoli convivano con l’aspettativa concreta di essere trovati e puniti (per uno o più reati).

Da ultimo, sarebbe utile adottare anche in Italia una legislazione sul modello statunitense che premi, con consistenti importi, coloro che rivelano casi di corruzione (cosiddetto “whistleblowing“). Se ne parla da tempo in Italia: lo stesso Ministro della Funzione Pubblica del Governo Monti, Patroni Griffi, aveva ipotizzato l’introduzione di una simile legislazione con premi fino al 30% dei proventi recuperati. A oggi esiste, invece, solo una normativa sulle segnalazioni anonime senza incentivi economici.

Spesso si parla di riforme strutturali a costo zero: quelle sopra indicate appartengono a questa categoria. Mentre fatichiamo a trovare i pochi miliardi necessari ad arrivare alla fine dell’anno (con i conti in ordine), qui si tratta di incidere su un sistema di malaffare che ha un costo enorme, diretto e indiretto, e crea un clima di sfiducia verso il paese dissuadendo gli investitori esteri.

Certo, sono tutti interventi che sortirebbero i loro effetti nel medio-lungo termine e il legislatore temiamo la pensi come John Maynard Keynes: “nel lungo termine saremo tutti morti” (politicamente, aggiungiamo noi).

Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle

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