Sta diventando sempre più chiaro che la questione attorno a cui si giocherà il futuro dell’Europa – e certamente quello della Commissione Juncker – è la riforma della governance economica dell’Unione. Se da un lato quello che Prodi definì’ il “Patto stupido” sta rivelando tutti i suoi limiti, dall’altro i suoi oppositori danno troppo spesso l’impressione di voler strumentalizzare critiche, di per sé condivisibili, con la speranza di tornare ai bei tempi delle politiche ‘tassa e spendi’. In realtà il problema c’è, ed è serio: ma, ancora prima di discutere del merito, è rilevante il metodo.
Semplificando, ci sono in Europa due atteggiamenti diversi tesi a frenare le rigidità tedesche. Da un lato c’è quello che, con un riferimento alla nostra politica interna, potremmo chiamare “alla Fini“, ovvero “Che fai, mi cacci?”. Così, il ministro francese dell’Economia, Sapin, ha annunciato unilateralmente che quest’anno Parigi sforerà’ di una volta e mezzo il tetto al deficit, attestandosi al 4,4% del Pil. Dalla reazione di Bruxelles, capiremo molto sull’atteggiamento della nuova Commissione verso chi non rispetta le regole vigenti. Dall’altro c’è’ un approccio che potremmo chiamare ‘lex, dura lex, sed lex‘, che in qualche modo caratterizza le posizioni italiane ma anche, su altri fronti, quelle inglesi: si criticano le regole, ma non si minaccia di non rispettarle. Questa diversità di atteggiamento riflette senza dubbio differenze profonde tra i singoli Stati membri e i loro interessi (come ha ben evidenziato Giorgio Arfaras).
Ma, anche al netto del rispettivo tornaconto, ci sembra più corretto cercare di cambiare le regole ‘da dentro’ piuttosto che sfidarle. Ne va, infatti, della credibilità dell’intero sistema e delle sue stesse prospettive di sopravvivenza. Inoltre, nel caso del 3%, è più ragionevole parlare di regole da adeguare, piuttosto che da eliminare o addirittura ignorare. In effetti, la soglia del 3% non è sbagliata in sé, ma lo diviene nel momento in cui i presupposti sui quali è stata adottata – nel caso specifico, la crescita economica attesa nel lungo termine -sono cambiati. Se questo è vero, è essenziale chiedersi quali sia il percorso da intraprendere e, soprattutto, quale sia la meta. Insomma, per dirla con Lenin: che fare? Certo il superamento sic et simpliciter di ogni disciplina di bilancio non solo non è ammissibile, ma non sarebbe neppure desiderabile. Se vogliamo mantenere i benefici dell’appartenenza all’Unione europea, a partire dall’effetto di contenimento sugli spread, dobbiamo essere disposti a sacrificare qualche fetta di autonomia.
La chiave di lettura più efficace è quella fornita da Alesina e Giavazzi in un recente editoriale pubblicato sul Corriere della Sera. L’Italia dovrebbe fissare – per sé e in prospettiva per gli altri paesi europei – un obiettivo chiaro, da perseguire attraverso tre passi cruciali. L’obiettivo è ovviamente di ottenere una sorta di “flessibilità negoziata” rispetto ai vincoli attuali, in coerenza col concetto di pareggio aggiustato per il ciclo economico adottato dal fiscal compact. Ciò solo consentirebbe al nostro paese di implementare politiche di bilancio più coraggiose. Se un paese per crescere ha bisogno di uno shock fiscale – è la tesi dei due economisti – allora deve essere in condizione di farlo, attraverso interventi asimmetrici dal lato delle entrate e delle uscite. In particolare, le tasse dovrebbero essere tagliate subito, mentre il relativo taglio di spesa potrebbe arrivare a regime in un orizzonte più lungo (per esempio un triennio). In tal modo si creerebbe un temporaneo squilibrio, compensato però dall’effetto pro-crescita della riduzione fiscale e garantito dall’efficacia graduale dei tagli di spesa.
Tale approccio impone di seguire un doppio binario: interno ed esterno. Internamente, bisogna conquistare la credibilità necessaria a non dare la sensazione di inseguire solo un vantaggio di corto respiro. L’Italia troverà più facile ascolto alle sue richieste se, mentre chiede di sforare temporaneamente il 3%, mette in campo un credibile piano di riduzione della spesa nel medio termine. Per la stessa ragione è cruciale che il governo tenga duro su altre battaglie, quali la riforma del mercato del lavoro e le liberalizzazioni, che sono state individuate non solo come passi sostanziali, ma anche come componenti simbolici dalla forte valenza comunicativa di una seria strategia di riforma.
Fare bene i compiti a casa è tuttavia necessario, ma non sufficiente. I paesi che desiderano aggiornare le regole europee devono anche costruire un ‘discorso politico’ che sia robusto e convincente, e per farlo devono anzitutto parlare tra di loro, e poi confrontarsi con la Commissione e con gli altri Stati membri. Paesi come l’Italia, in altre parole, devono usare con cautela gli eccessi retorici, e piuttosto impegnarsi in un lento lavoro negoziale che porti a trovare convergenze d’interessi e di visione. Se l’obiettivo comune è salvare l’Europa intesa come formidabile strumento d’integrazione e convivenza, occorre adottare regole comuni che siano però suscettibili di essere rispettate e che prevedano quelle flessibilità senza le quali ogni norma difficilmente viene rispettata. Gli interessi possono costituire il più facile terreno d’incontro, ma difficilmente si possono ottenere dei risultati giocando solo questa carta. In parole brutali: non serve all’Italia, né all’Europa, costruire un ‘asse degli spendaccioni’. Occorre piuttosto guardare avanti e cercare di immaginare che tipo di Europa vogliamo, e cosa possiamo imparare dalle vischiosità che abbiamo sperimentato nel passato. Il Regno Unito – lo ripetiamo da tempo – può essere un importante alleato per Renzi per costruire questo nuovo asse in Europa, assieme alla Spagna, che ha già realizzato in poco tempo molte riforme dure strutturali. E poi bisogna guardare anche a est. Insomma, per pensare ‘out of the box’ bisogna immaginare qualcosa di diverso dalla vecchia contrapposizione tra cicale del sud e formiche del nord Europa e iniziare a tessere una nuova tela. Se il governo riuscirà ad avviare questo processo, con l’autorevolezza che oggi le deriva dalla Presidenza di turno, questo non sarà stato un mero passaggio formale.
Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle