Matteo Renzi ha incalzato il governo nella partita sul taglio del cuneo fiscale. Stefano Fassina, su questo giornale, lo ha sfidato a indicare le coperture.
Noi parliamo a nuora (Fassina) sperando che suocera (Renzi) legga e intenda. Sebbene più volte abbiamo espresso simpatia per il sindaco di Firenze, la sua probabile vittoria alle primarie impone una maggiore dose di responsabilità. Le proposte di copertura avanzate da Renzi non sono verosimili e ha buon gioco Fassina a smontarle.
L’introduzione di un’imposta del 75% sui giochi, per esempio, avrebbe l’unico risultato di erodere la base imponibile e restituire vitalità al gioco illegale, che invece negli ultimi anni è arretrato dal 57% all’8% del totale. La pars construens del programma di Renzi deve, oggi, essere credibile, e lo sarà solo se e quando apparirà organica e sufficientemente argomentata.
Tagliare il cuneo fiscale è una delle misure pro-crescita singolarmente più importanti. Il cuneo fiscale, tra tutte le imposte sproporzionate nel nostro paese rispetto all’estero, è indubbiamente tra quelle maggiormente distanti dalla media: tra tasse e contributi, imprese e lavoratori vedono evaporare il 43,4% del salario lordo, contro il 23,8% della media Ocse.
Secondo il candidato segretario del Pd, è necessaria una manovra di almeno 20 miliardi di euro su questo fronte. Stanti i vincoli di finanza pubblica, questi 20 miliardi di euro devono essere trovati attraverso equivalenti tagli di spesa (o aumenti di altre imposte, ma per ovvie ragioni non prendiamo in considerazione questa ipotesi).
Il viceministro all’Economia a sua volta passa dalla ragione al torto quando descrive la legge di stabilità come un complesso di norme tese a ridurre la spesa pubblica italiana nell’ordine dei 10 miliardi di euro l’anno. Come ha dimostrato Sandro Brusco, tutto si regge su previsioni assai ottimistiche sull’andamento del Pil.
E’ allora possibile trovare questi 20 miliardi? E da dove possiamo cominciare?
La spesa pubblica italiana valeva nel 2011 (ultimo anno disponibile su Eurostat) il 49,9% del Pil, contro una media Ue27 pari al 49% e un livello pari al 45% in Germania (il paese con cui appare più ovvio confrontarci). Quindi, lo spazio per una riduzione della spesa c’è, eccome. Inoltre, parte delle imposte sul lavoro sono una mera partita di giro: i dipendenti pubblici formalmente pagano le tasse, ma in pratica il taglio delle loro imposte ha valore solo figurativo.
Di conseguenza, un taglio di 20 miliardi di euro al cuneo fiscale equivale a circa 17,5 miliardi “veri” (si tratta di una stima conservativa, basata sul rapporto tra i dipendenti pubblici e il totale degli occupati, ignorando che i primi hanno salari superiori di circa il 20% rispetto alla media).
La cosa più ragionevole è partire da quei capitoli di spesa nei quali l’Italia si discosta maggiormente dai paesi partner: pensioni e interessi. Il servizio al debito si porta via 4,4 punti di Pil (2,6 in Germania), la previdenza 18,3 (14,8 in Germania). L’eccessiva generosità pensionistica non è solo un driver della spesa pubblica, ma anche una delle ragioni per cui l’Italia appare incapace di dotarsi di un welfare moderno.
Al netto di pensioni e previdenza, la spesa pubblica italiana è relativamente bassa: in particolare quella per sanità e istruzione. Vi sono altre voci, infine, che, seppure di minor rilevanza, possono offrire opportunità di tagli: Renzi cita la difesa, e ha ragione, ma bisogna essere consapevoli che non è eliminando gli F35 (che per giunta hanno conseguenze in termini di posizionamento strategico) che si possono risparmiare soldi veri, ma dalla voce di costo prevalente, ossia la spesa per il personale. Vaste programme, direbbe De Gaulle.
Sul fronte pensionistico, dunque, occorre mettere nel mirino le pensioni di importo relativamente elevato e ricalcolarle secondo il metodo contributivo. Gli ottimisti dicono che si possono ricuperare 1-2 punti di Pil; i pessimisti circa 1 miliardo di euro. Sembra verosimile una stima conservativa di 5 miliardi di euro (senza negare le difficoltà legali dell’operazione, date le precedenti decisioni della Corte costituzionale su questioni analoghe).
Per quanto riguarda il servizio al debito, ci sono poche alternative all’apertura di un’ampia stagione di privatizzazioni in mano al Tesoro più volte annunciata da Letta: la cessione delle principali imprese partecipate e della quota di immobili più facilmente alienabile può generare, nel medio termine, un gettito nell’ordine dei 50-100 miliardi di euro, corrispondente a una minore spesa per interessi a regime attorno ai 2,5-5 miliardi di euro.
Per il resto, bisogna rimboccarsi le maniche. Un ovvio candidato sono i sussidi alle imprese. Il rapporto Giavazzi stima in circa 10 miliardi di euro la quota tagliabile. Diciamo che 2,5 miliardi sono ricuperabili nell’immediato. Oltre a questo, non esiste purtroppo una ricetta semplice: occorre armarsi di bisturi, più che di ascia. Tale lavoro passa soprattutto per una riorganizzazione dei processi produttivi della PA, e in particolare per la digitalizzazione dei servizi pubblici.
La proposta di Renzi di ridurre il cuneo fiscale all’istante, o quasi, di 20 miliardi di euro è dunque irrealistica. Essa diventa possibile solo se si declina secondo un piano pluriennale di revisione della spesa: ciò che finora è mancato. Il che ci induce a una considerazione conclusiva sulla spending review.
Il coinvolgimento di Carlo Cottarelli è una buona notizia, ma rischia a nostro avviso di protrarre un pericoloso fraintendimento: la revisione della spesa è certamente un fatto tecnico, ma prima ancora è figlia di scelte politiche. Il governo non può pensare di delegare questa scelta a consulenti, per quanto preparati.
Deve prendersene la responsabilità e, per farlo, deve anzitutto individuare quei settori della macchina statale che vanno cambiati, ben sapendo che ciò implica creare dei “perdenti”: imprese che fattureranno meno, pensionati che riceveranno assegni decurtati, funzionari che vedranno ridotto il loro potere, enti inutili chiusi o accentrati. E’ giusto e importante farlo nell’interesse del paese, ma bisogna sapere che non può esistere un ridimensionamento dello Stato che sia indolore per tutti. Chi decide divide.
Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle