Dopo il primo mese, nel quale siamo stati bombardati da commenti su Brexit, inevitabilmente l’interesse dei media si è spostato su altri temi. I mercati, con l’eccezione del comparto bancario (ma questa è una storia a sé), stanno riprendendosi e gli operatori finanziari già guardano avanti. Anche lo spread sui titoli di Stato, inizialmente incrementatosi, è ormai rientrato nella normalità. Come dimostra l’indice della fiducia dei consumatori e delle imprese in Italia – aumentato a luglio dopo tre cali consecutivi – alle preoccupazioni iniziali stanno lentamente sostituendosi la rassegnazione per le perdite subite e la speranza che alla fine la crisi si risolva in modo più indolore del previsto. E’ questa una razionale aspettativa o si tratta solo di un pio desiderio?
Com’è noto, nei giorni immediatamente successivi al referendum le Borse di tutto il mondo hanno bruciato circa tre trilioni di dollari, ai quali si aggiungono le numerose operazioni in perdita, a loro volta dovute al calo dei valori di borsa (si pensi, per esempio, ai finanziamenti garantiti da un collaterale ridottosi, o ai derivati). Nelle prime settimane si è registrata una fuga degli investitori dai fondi azionari europei che hanno perso circa 10 miliardi di euro. Per non dire della svalutazione della sterlina e delle perdite causate dalla volatilità dei mercati monetari a chi aveva un’esposizione, commerciale o finanziaria, in valuta e non aveva coperto per tempo la propria posizione. Non è questo però ciò che deve impensierirci: la reazione emotiva dei mercati è un fenomeno per definizione transitorio.
Più preoccupante è, invece, l’impatto di lungo termine che la Brexit potrà avere sull’economia reale. Il Fondo monetario internazionale, per esempio, ha rivisto al ribasso le stime di crescita dell’Eurozona e in particolare del nostro paese (che già peraltro erano assai esigue), motivandole proprio con le incertezze dovute alla Brexit. Anche il G20, riunitosi a Chengdu in Cina a fine luglio, ha concluso che essa ha aggiunto incertezza nell’economia globale. Sono intuitive le conseguenze attese per il Regno Unito, tant’è che, contrariamente a quanto rilevato nel nostro paese, l’indice della fiducia dei consumatori britannici ha registrato un drammatico calo di ben 11 punti nel mese di luglio. E per gli altri paesi europei? L’impressione è che, come nei mesi scorsi si è sottovalutato il rischio del referendum, così oggi si tende a ignorare l’impatto che potrà avere sulle nostre economie.
Innanzitutto, le preoccupazioni di carattere generale in questo momento certamente creano un clima meno favorevole agli investimenti. Inoltre, molte operazioni societarie (acquisizioni, fusioni, ecc.) già allo studio sono state congelate in attesa di tempi migliori, di maggiori certezze e magari di condizioni finanziarie e/o monetarie più favorevoli. E’ poi ragionevole attendersi che nei prossimi anni una larga parte dell’attenzione delle istituzioni dell’Unione sia devoluta al negoziato con il Regno Unito, a scapito – quantomeno in termini di tempistica – delle importanti partite in gioco che, se portate a termine, potrebbero contribuire significativamente a far ripartire la crescita in Europa: si pensi all’unione del mercato dei capitali, al digitale, alle grandi infrastrutture e all’energia. In questo senso, una delle prime vittime della Brexit è il Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti (Ttip), che verrà probabilmente rinviato sine die.
Molti ritengono che la Brexit crei delle opportunità per i paesi che sapranno attrarre le imprese in uscita dal Regno Unito. E’ così iniziata una guerra silenziosa per accaparrarsi questo potenzialmente ricco mercato: da un lato si cerca di attrarre gli “esodati” da Londra con promesse e incentivi, dall’altro di trattenere le imprese a suon di sconti fiscali e di deregulation. In realtà i benefici saranno presumibilmente marginali per gli altri paesi. Londra oggi è la principale piazza finanziaria in Europa ed è uno dei principali centri per le start up nei settori digitale, tecnologico e dell’informazione. Come per la Silicon Valley, vi è un valore nella concentrazione. Lo spostamento di una parte di queste imprese comporta perdita di sinergie e di valore per tutti.
Occorre poi considerare il notevole costo per le imprese europee, di cui finora si è parlato assai poco, per la prevenzione degli effetti collaterali. Dinanzi a un fenomeno così dirompente, ogni società è, infatti, oggi chiamata a fare un rigoroso esercizio di analisi del possibile impatto della Brexit sul proprio settore merceologico o industriale e sulla propria azienda. Ciò è indispensabile non solo per aggiornare i piani industriali, ma anche per darne un’adeguata informativa societaria oltre che per rispondere alle istanze dei vari stakeholders. Sarà così necessario riesaminare la struttura societaria, la posizione fiscale del gruppo, la dislocazione del personale, le sedi produttive, la registrazione della proprietà intellettuale, ecc. Ciò comporterà costi interni ed esterni (cosiddetti “friction costs“) che si tradurranno in una distrazione di fondi che altrimenti si sarebbe potuto impiegare per nuovi investimenti produttivi.
Inoltre, le perduranti incertezze su tempi e modalità di fuoriuscita del Regno Unito faranno si che delle decisioni al riguardo vengano prese nel breve o medio termine senza avere ancora un quadro di riferimento chiaro sui futuri rapporti con l’Unione europea. Già in questi prime settimane si parla di tagli del personale nelle grandi banche (Lloyd’s Bank ha annunciato 3000 licenziamenti e la chiusura di 200 filiali) o affrettati trasferimenti dalla City ad altre capitali europee. Il che, inevitabilmente, comporterà errori e ulteriori costi.
Insomma, il conto per la Brexit non è ancora stato presentato. Nel frattempo ci illudiamo che lo paghi solo (o soprattutto) il Regno Unito. In realtà questa è una situazione in cui occorrerà “pagare alla romana”: ognuno sopporterà un costo non previsto – e per ora non prevedibile – che potrà rivelarsi ancor più gravoso in questi tempi di fragile ripresa. Purtroppo non ci sono sconti.
Alberto Saravalle