Nelle ultime settimane innumerevoli commenti si sono soffermati sulle possibili conseguenze della fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione europea, evidenziandone i probabili effetti sul piano economico, finanziario, sociale e politico tanto per l’una che per l’altra parte. Si è parlato poco, invece, di quale impatto possano concretamente avere per gli altri Stati e per l’Unione le intese raggiunte nel Consiglio europeo del 19 febbraio che diventerebbero vincolanti in caso di esito favorevole alla permanenza nell’Unione del referendum del 23 giugno. In altri termini, le concessioni al Regno Unito avranno un impatto sostanziale sull’Unione (non solo nei rapporti con il Regno Unito) o si tratta solo di uno specchietto per le allodole che serve a Cameron per presentarsi ai propri elettori con un successo sulla carta da spendere sul piano elettorale?
Il punto che ha sollevato le maggiori preoccupazioni sul futuro dell’Unione è il fatto stesso che il Regno Unito abbia posto il tema della propria possibile fuoriuscita per ottenere delle concessioni, quali che siano poi i risultati conseguiti. Si teme che sia stata aperta una scatola di Pandora che inevitabilmente porterà a richieste analoghe da parte di altri paesi che ridurranno all’osso ciò che lega i 28 paesi. Ma, a ben vedere, il rischio sembra assai limitato perché da sempre, nella storia dell’Unione, vale il principio orwelliano per cui tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. Se da un lato non sembra neppure immaginabile che simili richieste provengano dal nucleo originario dei paesi fondatori (anche allargato a 12), sembra ben difficile ipotizzare che Polonia, Ungheria o altri paesi che di recente si sono messi in rotta di collisione abbiano la forza politica necessaria per avviare una simile trattativa.
Nel merito, si è tanto parlato del fatto che il Regno Unito non sia vincolato a prendere parte a un’ulteriore integrazione politica nell’Unione europea, ma questa ipotesi sembra comunque ben lontana oggi. Si tratta dunque, di una vittoria più sul piano ideologico che reale. Da tempo non c’è una sola Europa, ma ce ne sono tante. Già negli anni ’70, quando il processo d’integrazione per la prima volta si arrestò (si parlava di Eurosclerosi) in conseguenza delle varie crisi (petrolifera, valutaria, economica) che colpirono i paesi della Comunità, si coniò l’espressione “Europa a due velocità”. Con il Trattato di Amsterdam nel 1997 si ammise la possibilità per un gruppo di Stati di procedere a un’integrazione differenziata con il meccanismo della “cooperazione rafforzata”. Oggi Unione, eurozona, spazio di libertà, sicurezza e giustizia e area di Schengen hanno confini diversi. L’accordo con il Regno Unito non fa che prendere atto di questo fenomeno.
L’altro grande tema sul quale si è concentrata l’attenzione degli osservatori è quello delle limitazioni alle prestazioni di sicurezza sociale e alla libera circolazione per i lavoratori migranti. La concessione ha una grande valenza politica ed economica, ma neppure qui troviamo reali problemi nell’immediato per l’Unione. Le disposizioni di questa sezione – che dovranno trovare attuazione con la modifica di taluni regolamenti – creano un pericoloso precedente laddove riconoscono la possibilità di introdurre misure restrittive, sia pure per un periodo limitato. Al tempo stesso, però, va dato atto di uno sforzo palese nel testo dell’accordo per ricondurre tali ipotesi all’interno del Trattato, dimostrando che si tratta solo di situazioni eccezionali o volte a evitare abusi del diritto. Non sarà dunque così facile far passi indietro duraturi rispetto all’acquis della libera circolazione delle persone. Dopotutto c’è un giudice a Strasburgo.
Più problematiche possono essere le previsioni in tema di governance economica che sanciscono l’esistenza con pari dignità di altre monete diverse dall’euro e l’obbligo per gli Stati non appartenenti all’eurozona di agevolare l’eventuale approfondimento dell’Unione economica e monetaria e per i membri dell’eurozona di rispettare i diritti e le competenze degli Stati non partecipanti. Fin qui si tratta di una mera enunciazione di principio. L’allegato però contiene un divieto di discriminazione fondato sulla moneta che, secondo alcuni primi commentatori, potrebbe essere invocato per prevenire misure delle istituzioni europee a danno della City che non abbiano solide ragioni oggettive. Negli ultimi anni il cancelliere Osborne si è ripetutamente battuto contro iniziative, a suo dire, pregiudizievoli: dall’imposta sulle transazioni finanziarie, al divieto di vendite allo scoperto fino alla policy adottata nel 2011 dalla BCE (bocciata pochi mesi fa dalla Corte di Giustizia) che richiedeva alle clearing houses operanti prevalentemente in euro di stabilirsi in un paese che adottava la moneta comune.
Per quanto attiene all’Unione bancaria, si consente che per salvaguardare la stabilità finanziaria, taluni requisiti del codice unico europeo siano concepiti nell’eurozona in maniera più uniforme rispetto alle norme corrispondenti che devono essere applicate dalle autorità nazionali degli Stati membri che non partecipano all’unione bancaria. Il che col tempo potrebbe far emergere delle differenze sul piano regolatorio con conseguenze pratiche per i clienti che potranno scegliere tra un regime più “sicuro” ed uno più “flessibile”. Ma se questo è il prezzo da pagare, è dopotutto ben poca cosa. Siamo abituati all’armonizzazione in Europa che lascia permanere delle differenze tra i regimi nazionali. Infine, nel progetto di decisione è stato introdotto un meccanismo analogo a quello del c.d. Compromesso di Lussemburgo del 1966 che prevede, nel caso di opposizione di uno stato non partecipante all’unione bancaria all’adozione di un atto a maggioranza qualificata, un supplemento di discussione in seno al Consiglio che farà tutto il possibile per raggiungere, entro un tempo ragionevole, una soluzione soddisfacente che tenga conto delle preoccupazioni manifestate da tale Stato. Niente di nuovo sotto il sole.
Insomma, l’analisi a mente fredda degli accordi non deve indurre a soverchie preoccupazioni per il futuro dell’Unione. Casomai dovremmo domandarci se saranno sufficienti a superare le resistenze interne persuadendo la parte riluttante dell’elettorato Tory che ha trovato in Boris Johnson un nuovo campione nazionale. Dato il rischio di disastro nel caso di Brexit e tenuto conto dei sondaggi che vedono quasi in sostanziale parità i due fronti, vien da pensare che ai negoziatori sarebbe stato utile far ricorso alla nota locuzione latina melius abundare quam deficere.