E poi e non ne rimase nessuno. E’ il titolo di un famoso libro di Agatha Christie (più noto come Dieci piccoli indiani), ma oggi potrebbe anche essere la conclusione di un saggio sulla fine dell’europeismo nel nostro paese. Se, infatti, consideriamo tutti i partiti rappresentati in Parlamento, è agevole constatare come il tasso di filo-europeismo sia ormai molto ridotto: ma, soprattutto, come – mentre le forze euroscettiche lo siano esplicitamente – quelle europeiste quasi tendano a nascondere, o comunque a non dare centralità, a questa loro caratteristica. Come se parlare d’Europa fosse privilegio di chi non la vuole.
Per prima era stata la Lega ad assumere posizioni oltranziste ed euroscettiche, dichiarandosi tra l’altro contraria alla ratifica della Costituzione europea e, fin dagli anni ’90, osteggiando l’adozione dell’euro. In tempi più recenti, su queste posizioni si era allineato anche Berlusconi, dinanzi alle sempre più pressanti critiche – per non dire ostracismo – della Cancelliera Merkel nei suoi confronti. E’ stata poi la volta di Grillo ad assumere nette posizioni contro l’Unione europea, definita “una moderna dittatura che si autolegittima“, che culminano nelle proposte di abolire il Fiscal Compact e nell’uscita dall’euro. Il Nuovo centrodestra, pur riconoscendosi nel Partito Popolare Europeo, è parso abbastanza tiepido sulle posizioni europee (forse per timore della competizione con Forza Italia). Nelle scorse settimane abbiamo visto, infine, anche il nuovo premier Renzi, nel dibattito alla Camera sulla fiducia, prendere le ostentatamente distanze da Bruxelles, dicendo a chiare lettere che “non ci faremo dettare la linea dall’Ue” (anche se va dato atto a Renzi e Padoan di aver accolto con serietà le più recenti critiche della Commissione, senza buttare la palla in tribuna).
Come se ciò non bastasse, mancano nella compagine di governo il Ministro per le Politiche europee e quello per la Coesione sociale: insomma mancano i due ministri che per definizione dovrebbero dialogare con le istituzioni europee, specie in vista del semestre di presidenza italiana. Non solo: a differenza del suo predecessore, Renzi non ha fatto alcun riferimento all’impegno di rispettare il fatidico 3% nel rapporto deficit/Pil (pur avendo abbandonato i toni critici più volte mostrati in precedenza) e non si è affrettato a visitare le principali capitali europee. Non che questo implichi un definitivo revirement, ma l’imminenza delle elezioni europee – la prima prova elettorale di Renzi – sembra indurlo a strizzare l’occhio a quella crescente parte del paese che mostra insofferenza per l’Ue.
Restano accesi europeisti solo i liberali che si riconoscono in Scelta Civica, Fare, Ali e numerosi altri movimenti, oggi privi di rappresentanza parlamentare. Non a caso, la lista unitaria per le elezioni europee che fa capo all’Alde (l’Alleanza Liberaldemocratica Europea), promossa dal leader belga Van Verhofstadt, che in Italia conta ben 13 movimenti, ha ottenuto anche l’endorsement di Romano Prodi che, in veste di Past President della Commissione, ha particolarmente a cuore le sorti dell’Unione.
E’, chiaramente, una posizione minoritaria nel paese. Il che è tanto più paradossale in quanto per decenni tutti i nostri leader hanno fatto a gara per mostrarsi i più europeisti. Si trattava, però di un europeismo solo di facciata. Oggi, invece, prevale anche in Italia una certa insofferenza per le politiche di austerity targate Bruxelles, l’eccesso di burocrazia, la limitata democrazia nelle istituzioni. Nella percezione generale, è un bellissimo giocattolo che si è inceppato. Da alcuni anni, infatti, l’Europa delle istituzioni ha lasciato il passo a quella degli Stati in cui prevalgono pulsioni protezionistiche ed egoismi nazionali.
L’Unione non riesce a parlare con una voce unica neppure nelle crisi che la toccano da vicino, come quella che ora riguarda l’Ucraina. E intanto nei paesi dell’est si registra un crescente e preoccupante deficit democratico. Anche le tanto decantate recenti riforme – prima tra tutte la gestione delle crisi creditizie nell’ambito dell’Unione Bancaria – a ben vedere sono poca cosa se si pensa che i fondi per salvare le banche in crisi saranno pochi (55 miliardi di euro in dieci anni) e dovranno essere erogati dallo stesso sistema bancario. Ancora una volta i paesi forti (Germania in primis) hanno lottato per mantenere l’ultima parola, evitando che il salvataggio avvenga con fondi europei.
Ovviamente abbiamo salde convinzioni europeiste, ma vorremmo che le nostre battaglie fossero realistiche e non condotte solo in nome di un astratto idealismo. Nella sua prima intervista da Ministro degli esteri, per esempio, Emma Bonino, rilanciava il progetto di una federazione leggera: esteri, difesa, sicurezza, fiscalità, tesoro, ricerca, infrastrutture e immigrazione in comune. Troppa carne al fuoco, almeno in questa fase. Meglio sarebbe concentrarsi su poche, ma cruciali, partite che siano in grado di cambiare le cose e riportare l’Europa più vicino ai cittadini. In fondo la stessa Alde pecca, in molte sue posizioni, di idealismo: che la strada verso gli Stati Uniti d’Europa sia astrattamente positiva o negativa – e la risposta non è scontata – essa non è in alcun modo in agenda. Chi dunque voglia definire la propria posizione in questi termini finisce per condannarsi all’irrilevanza.
Un europeismo realista deve piuttosto concentrarsi su quelle misure che possono completare percorsi già iniziati e che sono realisticamente conseguibili. Pensiamo per esempio alle liberalizzazioni per completare veramente il mercato interno (dopotutto, se non fosse per la direttiva Bolkestein, pur con tutte le sue inadeguatezze, in Italia avremmo ancora concessioni balneari affidate per 50 anni!), all’accordo transatlantico sul libero scambio e gli investimenti, alla lotta per limitare la portata distorsiva della politica agricola comune, alla realizzazione di una rete europea di infrastrutture, alla creazione di un mercato dell’energia competitivo, ecc. Tutte battaglie importanti che potrebbero trovare una sponda ricettiva nel Regno Unito, contrastando così la superpotenza della Germania. Forse sono tematiche meno sexy, ma sicuramente in grado di incidere sulla crescita e dunque più suscettibili di convincere che dotte lezioni sull’euro.
Ci piacerebbe pensare che il semestre di presidenza italiana che si aprirà tra pochi mesi sia votato a questi temi, dove è veramente possibile fare progressi, anziché concentrarsi su questioni retoriche e di difficile soluzione. Sarebbe un’ottima occasione anche per Renzi per mostrare una diversa attitudine alle questioni europee e guadagnare il rispetto dei nostripartner. Una volta tanto, siamo europeisti, ma non velleitari.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro