Nel 1923, Giuseppe Prezzolini scriveva che “in Italia nulla è stabile, fuorché il provvisorio”. Chissà se avrebbe mai immaginato che, poco meno di un secolo dopo, quell’aforisma avrebbe potuto essere esteso all’intera Europa.
La Commissione europea ha prorogato – per la seconda volta – il “temporary framework”, cioè il regime transitorio col quale aveva consentito agli Stati membri di derogare ai vincoli del Trattato ed erogare aiuti di Stato alle imprese in funzione anti-Covid. Le intenzioni sono più che condivisibili, ma i risultati rischiano di mettere in discussione uno dei pilastri del mercato interno. E questo rischio sarà tanto maggiore quanto più a lungo le regole resteranno sospese.
La disciplina, contenuta all’articolo 107 e seguenti del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, infatti, dichiara “incompatibili col mercato interno” tutti quei sussidi pubblici “che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”. Naturalmente, ci sono delle eccezioni, tra cui gli aiuti consessi ai consumatori, quelli finalizzati a soccorrere le aree colpite da calamità naturali, oppure quelli strumentali a perseguire gli obiettivi dell’Unione (per esempio, la promozione delle fonti rinnovabili).
Anche in questi casi, comunque, gli aiuti vanno notificati a Bruxelles e devono rispettare criteri stringenti, in modo tale da minimizzare, se non del tutto eliminare, le distorsioni della concorrenza.
La normativa sugli aiuti è, contemporaneamente, un elemento costitutivo dell’Unione e una delle ragioni del suo successo economico. Dal punto di vista istituzionale, la ragione per cui l’Europa sarebbe impensabile senza di essa è che impedisce agli Stati membri di proteggere le rispettive aziende, impedendo così l’integrazione dei mercati e mantenendoli segmentati in funzione dei confini amministrativi.
Se i governi potessero liberamente sostenere i propri campioni nazionali, si svuoterebbero di significato i principi europei della libera circolazione, con particolare riferimento alle merci e ai servizi. L’applicazione rigorosa – anche se non sempre coerente – delle regole sugli aiuti di Stato ha consentito al mercato interno di diventare una realtà ormai tangibile: l’economista Thomas Philippon, tra gli altri, ha di recente evidenziato come ciò renda l’Unione europea un esperimento unico, e sia alla base della maggior concorrenzialità del suo mercato rispetto agli Stati Uniti.
Poi è arrivato il Covid. I fatturati delle aziende sono stati travolti dal virus e dalle restrizioni imposte a scopo precauzionale. E gli Stati sono dovuti intervenire per impedire il fallimento di realtà finanziariamente sane, ma messe in difficoltà dalla situazione eccezionale in cui ci troviamo. Per facilitare e velocizzare l’erogazione degli aiuti, la Commissione ha appunto adottato il temporary framework, che è andato più volte estendendosi nel tempo sia per quanto riguarda il suo orizzonte temporale, sia per quanto attiene il suo ambito di applicazione.
Adesso, la scadenza del “periodo di grazia” viene ulteriormente rinviata al 30 giugno 2021 per la concessione di aiuti alle imprese, e addirittura al 30 settembre per le operazioni di ricapitalizzazione delle aziende in crisi. Nel frattempo, sono stati approvate 367 misure di sostegno pubblico per un controvalore complessivo di quasi tre mila miliardi di euro. Più della metà di questi sono stati erogati dalla Germania; al secondo posto si trova il nostro paese che vanta circa il 15,2% del totale dei fondi autorizzati.
Ovviamente, per valutarne l’efficacia, non conta solo la quantità, ma anche la qualità dell’intervento: una cosa è se i fondi sono utilizzati per la parziale copertura dei costi fissi di imprese particolarmente colpite dalla crisi per consentire loro di superare il momento critico, altra cosa se si cerca approfittarne per cercare di salvare anche società già in difficoltà prima della pandemia, con problemi difficilmente superabili.
Più in generale, queste misure avevano perfettamente senso, come iniziative emergenziali, in un momento in cui – oltretutto – le imprese dovevano stare chiuse o comunque lavorare a ritmi ridotti per effetto dei lockdown stabiliti quasi ovunque in Europa. Ma più passa il tempo, più gli effetti diretti delle misure restrittive si sovrappongono a dinamiche pre-esistenti e anche ai fenomeni di ricomposizione dell’economia, dovuti alle mutate preferenze dei consumatori.
Se l’intervento pubblico – in forma di sussidi o di partecipazione all’equity – ha l’effetto (o addirittura l’obiettivo) di impedire questi aggiustamenti, non solo non aiuterà a uscire dalla crisi del Covid, ma addirittura finirà per aggravarla.
C’è poi un aspetto ancora più grave, se visto in una prospettiva di lungo termine: già oggi, gli Stati stanno approfittando della ritrovata “sovranità” per fare un uso talvolta spregiudicato degli aiuti. Più ci prenderanno la mano, più le loro scelte di bilancio influenzeranno l’andamento dei mercati e i risultati delle imprese, più sarà difficile ingranare la marcia indietro e tornare allo spirito originario del Trattato.
In sostanza, così come l’integrazione dei mercati – una volta conseguita – è difficile da fratturare, è vero anche il contrario. Solo che la natura della recessione in atto rende improvvisamente più tenui i legami tra i mercati, perché vede i governi giocare un ruolo inevitabilmente da protagonisti. Le decisioni di oggi avranno ripercussioni negli anni a venire, molto al di là dell’epidemia che – speriamo – verrà presto debellata da un vaccino.
Se gli Stati rivendicano il predominio sui mercati nazionali, ci vorranno sforzi erculei per riconquistare ciò che appariva assodato: c’è voluto mezzo secolo a gettare le fondamenta del mercato unico, potrebbero bastare pochi mesi di coronavirus e di redivivo nazionalismo economico per disfare gran parte del lavoro.