Il patto di stabilità è sospeso. Ma il dibattito sulle nuove regole fiscali non si fermi
03/03/2021 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Che fine ha fatto il patto di stabilità e crescita (PSC)? La Commissione europea ha appena deliberato il mantenimento della clausola di salvaguardia generale per tutto il 2022, come chiedeva il Commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni. Di conseguenza, i famigerati parametri europei sul debito e sul deficit rimarranno in soffitta fino al 2023, per dare tempo agli Stati di risollevarsi dalla pandemia.

Per anni, il PSC è stato al centro delle polemiche sull’Unione economica monetaria. Al riguardo si è detto tutto e il contrario di tutto: che le regole sono troppo rigide e al tempo stesso che sono troppo flessibili, che sono pro-cicliche e che sono troppo complesse, che sono stupide e perfino che la loro adozione è stata il risultato di un “golpe” in violazione dei trattati. In Italia, il PSC è stato spesso contestato per motivi diversi da governi di segno opposto: Renzi, per esempio, chiedeva maggiore flessibilità, Conte (prima maniera) voleva invece avere le mani libere per sconfiggere la povertà.

Poi è arrivato il Covid e tutto questo dibattito ci è rapidamente scivolato dietro le spalle. O meglio, con la pandemia l’Ecofin, su proposta della Commissione, ha attivato la clausola di salvaguardia che consente di autorizzare gli Stati ad allontanarsi temporaneamente dal percorso di aggiustamento all’obiettivo di bilancio a medio termine, qualora si verifichi un evento inconsueto al di fuori del loro controllo che abbia rilevanti ripercussioni sulla situa­zione finanziaria generale o in caso di grave recessione economica della zona euro o dell’intera dell’Unione.

Per la verità, la modifica del PSC e delle altre regole di sorveglianza multilaterale era già tra gli obiettivi della nuova Commissione fin dalla sua instaurazione nel 2019. E all’inizio del 2020 fu, infatti, lanciata una pubblica consultazione, aperta alle istituzioni Ue, autorità nazionali, università, ecc., rimasta poi congelata per effetto della pandemia che ha stravolto i piani di riforma. Nelle scorse settimane si è però ripreso a parlare della riattivazione delle regole su deficit e debito temporaneamente sospese. Dopo un lungo braccio di ferro, si è infine trovato un accordo sul fatto che i Governi possono continuare a spendere senza i limiti del PSC ancora per un po’.

Nel frattempo alcune proposte di riforma sono state avanzate. La prima, e finora la più autorevole, è quella presentata dall’European Fiscal Board già nel settembre 2019: una radicale semplificazione delle regole che dovrebbero in futuro focalizzarsi esclusivamente sul debito, utilizzando come parametro di controllo il rapporto tra la spesa nominale e il reddito potenziale. Gli obiettivi di debito sul PIL dovrebbero essere differenziati tra i vari Stati e la programmazione dovrebbe divenire triennale, per dare maggiore flessibilità alla politica di bilancio. Per evitare che i vincoli di bilancio si scarichino sugli investimenti pubblici (come avvenuto nel nostro paese, dove invece la spesa corrente ha continuato ad aumentare) è stata poi proposta l’introduzione di una golden rule che consentirebbe di non tener conto delle spese effettuate per progetti approvati a livello europeo (es.: green deal e digitale). Tutte le altre regole attuali volte a introdurre flessibilità verrebbero abolite e sostituite da una clausola generale di flessibilità. Infine, niente più sanzioni, ma solo incentivi per il rispetto delle regole.

Un paper, presentato nelle scorse settimane dal Peterson Institute for International Economics, propone invece di abbandonare definitivamente le “regole fiscali” (per definizione sempre troppo complesse e comunque inadeguate a far fronte a una realtà molto diversificata e mutevole) facendo invece ricorso a “standard fiscali”. Si tratterebbe cioè di valutare caso per caso, ad esito di un processo decisionale articolato, se tali prescrizioni di tipo qualitativo, fondate sull’analisi di sostenibilità del debito, sono state rispettate in concreto. Ovviamente gli standard dovrebbero essere stabiliti da organismi nazionali indipendenti e/o dalla Commissione ed eventuali controversie sul loro rispetto dovrebbero essere assoggettate al giudizio della Corte di Giustizia.

Il dibattito in Germania – uno Stato tradizionalmente fautore dell’ortodossia fiscale – è stato finora ambivalente. Agli inizi di febbraio, Helge Braum, un politico vicino alla Cancelliera Merkel, ha inaspettatamente proposto di modificare la Costituzione per rimuovere il vincolo sul debito (che limita il deficit strutturale allo 0,35% del PIL) onde consentire di indebitarsi maggiormente per favorire la ripresa dell’economia dopo la pandemia. La proposta ha inevitabilmente sollevato molteplici reazioni critiche da molti esponenti della CDU, il partito da sempre posizionato su una linea rigorista. Tuttavia, un recente paper del German Council on Foreign Relations ha sostenuto che un rapido ritorno alle regole fiscali del passato potrebbe mettere a repentaglio la ripresa e aumentare la divergenza tra le politiche fiscali degli Stati Uniti e dell’Ue, suggerendo degli espedienti per aggirare il vincolo sul debito senza modificare la Costituzione.

La proroga della clausola di salvaguardia è stata opportuna perché ci dà tempo per definire le nuove regole fiscali, consentendo di entrare poi direttamente nel nuovo regime. Per effetto della pandemia, tutti gli Stati saranno molto più indebitati e di ciò si dovrà certamente tenere conto. Ciascuna proposta ha pro e contro: non esiste una regola perfetta e comunque ogni scelta è arbitraria. Non si può però pensare che il futuro ci riservi un’Unione economica e monetaria senza un’adeguata disciplina fiscale negli Stati membri. La verità è che troppo spesso il confronto tra gli Stati europei (e tra i partiti al loro interno) si è solo fintamente focalizzato sulle regole, mentre in realtà sottendeva il rifiuto di ogni vincolo di bilancio. Le conseguenze si sono viste durante la crisi dei debiti sovrani tra il 2008 e il 2012 e non vogliamo reiterarle.

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