Il puzzle-Italia
28/02/2013 di Alberto Saravalle.

Sono passate 48 ore dal voto. Continuano i dibattiti post-elettorali su tutte le televisioni. I report delle principali banche, delle agenzie di rating e dei think tank cercano di spiegare l’inspiegabile al pubblico internazionale. Nel frattempo la borsa è scesa e lo spread ha toccato picchi che non si raggiungevano da mesi. Mentre le interpretazioni si accavallano frenetiche, con una lentezza quasi paradossale inizia il balletto delle dichiarazioni dei principali leader, spesso “fatti a nuora perché suocera intenda”. Fin qui nulla di nuovo.

I principali commentatori analizzano il risultato quasi si trattasse di un incontro sportivo (chi ha vinto e  chi ha perso), senza indicare soluzioni per uscire dall’attuale cul de sac. L’unica convergenza è sulla gravità della situazione. Non voglio ripetere quanto è stato già detto e mi limiterò ad alcune brevi osservazioni:

1) Berlusconi ha ottenuto un successo al di là di tutte le aspettative non solo per le sue abilità istrioniche: una consistente parte degli elettori ha votato PdL (o uno dei suoi alleati) pur nutrendo disistima per il leader, ritenendo che fosse l’unica soluzione per impedire l’avvento di un governo “di sinistra” giudicato, a torto o ragione, inadeguato o contrario ai propri interessi. Ingenuo continuare a credere che gli italiani siano tutti e soltanto facile preda delle capacità comunicative di Berlusconi.

2) Il tentativo di superare il bipolarismo è fallito anche per l’incapacità del centro di proporsi come polo potenzialmente maggioritario. Fin dall’inizio Monti si è presentato come alleato del PD. Una sorta di “stampella” utile a dare, sui mercati e con i principali leader stranieri, credibilità al governo di centrosinistra, e non perché fosse di per sé inaffidabile, ma perché si temeva potesse finire preda di tentazioni keynesiane, o comunque fosse troppo condizionato dai sindacati. A poco sono serviti i successivi tentativi di trovare un proprio spazio, anche in polemica con il PD.

3) E’ certamente vero che Bersani si è seduto sugli allori delle primarie, ma è anche vero che non è riuscito a parlare al paese. Il suo solo interlocutore è stato l’elettorato tradizionale del PD (e nemmeno tutto, dal momento che molti sono i voti finiti a Grillo). La classe dirigente del PD non ha colto la gravità della situazione e la necessità di un profondo rinnovamento non solo di persone, ma anche di ricette economiche e sociali.
I laburisti inglesi, ad esempio, sono tornati al potere solo quando Blair ha radicalmente cambiato il partito e la sua Weltanschauung. Come nel ’94, invece, i dirigenti del PD hanno pensato di vincere grazie all’apparente crollo del centro-destra. Indubbiamente Renzi avrebbe dato ben diversa vitalità al partito che, forse, avrebbe sofferto una scissione a sinistra, ma avrebbe certamente guadagnato ben più consensi al centro, e recuperato i voti di protesta andati a Grillo.

4) Grillo è stato prima sottovalutato e poi demonizzato. In politica questi sono errori gravi, che si pagano. Continuare a farlo, irridendo l’inesperienza dei nuovi parlamentari (come già accade in alcuni dei principali mezzi di informazione) sarebbe un errore ancor più grave.
La brutta campagna elettorale – troppo spesso trasformata in un balletto di affermazioni polemiche e di promesse palesemente non realizzabili – ha dato nuova linfa alla protesta. In momenti storici non troppo lontani, la rabbia della gente avrebbe potuto trasformarsi in violenza: del resto, ricordiamo tutti le manifestazioni e gli scontri in piazza avvenuti nei mesi scorsi in Grecia. Grillo è la cartina di tornasole di un profondo disagio, per troppo tempo ignorato.

5) Fare per Fermare il Declino, ad onta dei programmi valutati positivamente da gran parte dei commentatori ed esperti, ha ottenuto un risultato molto insoddisfacente. È difficile valutare quanto abbia pesato la vicenda di Oscar, e quanto sia dovuto al tempo limitato, ai pochi fondi a disposizione, all’inesperienza di molti e al silenzio dei media per tutta la prima parte della campagna elettorale. A mio avviso, il bacino elettorale al quale Fare avrebbe potuto attingere era abbastanza ampio: oltre agli elettori tradizionalmente di matrice liberale, una fetta di renziani delusi, una parte di tradizionali elettori di Lega e Pdl e molti voti di protesta andati poi a Grillo.
Il valore dei programmi e delle idee resta intatto, ma in situazioni  come questa spesso capita di recriminare e di dividersi tra mille accuse, anche arrivando allo scontro personale. Tutto ciò mi addolora.

E ora? E’ estremamente difficile ricomporre il puzzle. Certamente bisogna fare in fretta: i mercati sono in subbuglio. Tornare al voto, dopo la serie di passaggi istituzionali, vorrebbe dire lasciare il paese per almeno sei mesi nell’instabilità assoluta.
D’altro lato, non si può continuare a ignorare un terzo dei votanti: così facendo finiremmo per consegnare il paese a Grillo alla prossima tornata elettorale, o ci troveremmo le piazze piene di persone che protestano. Quindi bisogna trovare punti di convergenza, a partire dalle riforme istituzionali su costi della politica e legge elettorale. Ci sono poi una serie di riforme strutturali che, al di là delle polemiche elettorali, ricorrono con poche divergenze in molti programmi: riduzione del debito pubblico,  privatizzazioni, riduzioni del carico fiscale, riforma della giustizia civile…
Bisognerebbe avere il pragmatismo di ripartire da qui.

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