Il re è nudo, ma non è la riforma del Mes a denudarlo
25/11/2019 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

La riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), il cosiddetto Fondo salva-Stati, non è né una disgrazia per il nostro Paese, né l’esito di un complotto anti-italiano. In questi giorni, molti hanno messo in discussione l’accordo raggiunto a giugno scorso: chi per indicarne potenziali criticità (è il caso di Carlo Cottarelli e Giampaolo Galli), chi invece per cavalcare l’onda anti-europeista.

In realtà, come spesso accade, siamo in presenza di un tema cruciale per il nostro Paese e per il futuro del disegno europeo, che purtroppo è rimasto in ombra nel nostro dibattito pubblico per mesi, salvo accorgersene quando ormai i giochi erano sostanzialmente fatti. In tal modo, né le critiche costruttive, né le accuse infondate potranno sortire altro effetto se non quello di aumentare ulteriormente la nostra entropia nazionale, come messo in luce in questi giorni da molti commentatori, tra i quali in particolare Lorenzo Bini Smaghi e Ferdinando Giugliano.

Da circa sette anni – da quando cioè furono adottati il Trattato istitutivo del Mes e il Fiscal Compact – si dibatte delle ulteriori riforme necessarie per rafforzare l’eurozona. Nel tempo si sono succedute numerose proposte, alla fine rimaste sempre nel cassetto: il rapporto dei 4 presidenti (Van Rompuy, Draghi, Barroso e Juncker) nel 2012, il rapporto dei 5 presidenti (Juncker, Tusk, Dijesselbloem, Draghi, Schulz) nel 2015, la proposta dei due governatori delle banche centrali francese (Villeroy de Galhau) e tedesco (Wiedmann) per un ministro delle finanze europeo nel 2016, la proposta del governo Renzi per una “strategia condivisa per crescita, lavoro e stabilità” nel 2016, il documento della Commissione di riflessione sull’approfondimentodell’UEM nel 2017 e la dichiarazione di Meserberg sottoscritta da Macron e Merkel nel giugno 2018.

La modifica del trattato istitutivo del Mes è uno degli elementi cruciali di una strategia per meglio prevenire nuove crisi sistemiche e ampliarne la capacità di fuoco. La questione è estremamente complessa e riflette equilibri delicati. È quindi incredibile che si sia arrivati ora addirittura a una passo dalla spaccatura della maggioranza di governo su un tema che in Europa è considerato pressoché chiuso.

Per farla breve, il Vertice euro del 21 giugno, tra l’altro, aveva preso atto dei progressi compiuti in sede di eurogruppo per la revisione del Trattato sul Mes e aveva invitato a concludere i lavori entro fine anno. La bozza del nuovo testo (pubblicata sul sito del Consiglio dopo la riunione dell’Eurogruppo del 14 giugno) prevede diversi significativi cambiamenti, volti a rafforzare la stabilità del sistema.

Innanzitutto, come già da tempo caldeggiato dai vertici euro, il Mes fungerà da backstop – cioè da rete di protezione di ultima istanza – per il fondo di risoluzione unico, fornendo una linea di credito che ne assicura la solvibilità in caso di gravi crisi bancarie. In secondo luogo, è prevista la possibilità di fornire assistenza precauzionale onde evitare che uno shock incontrollabile possa propagarsi a Stati che versano in una situazione finanziaria solida.

Per definizione, però, tale strumento è accessibile solo agli Stati che stiano rispettando i consueti criteri di finanza pubblica, come del resto oggi è previsto per potersi avvalere delle outright monetary transactions (ovvero dell’intervento illimitato della Bce).

Il punto che ha sollevato un ingiustificato pandemonio è il paventato rischio che la condizionalità — alla quale sono sempre assoggettati i prestiti del Mes — comporti una ristrutturazione del debito. Si badi che il nuovo testo si limita in una premessa ad affermare che i finanziamenti saranno erogati solo a Stati il cui debito sia sostenibile e la cui capacità di rimborsare il Mes sia confermata.

Dopodiché, nella premessa successiva si afferma che in casi eccezionali può essere considerato un cosiddetto private sector involvement ovvero un haircut dei crediti dei privati (come avvenne in Grecia nel 2012) accompagnato a un programma di aggiustamento macro-economico nel quadro della condizionalità. Un implicito riferimento alla ristrutturazione del debito si ha anche nella previsione che impone di inserire nelle emissioni pubbliche dal 2022 delle clausole “single-limb aggregating voting” che consentono ai creditori di votare più facilmente in caso di ristrutturazione del debito.

Si tratta di disposizioni tutt’altro che rivoluzionarie. La sostenibilità del debito pubblico è ovviamente valutata anche oggi prima di decidere se concedere il sostegno richiesto. Il Mes non è un bancomat dal quale si possono ottenere sempre e comunque i fondi (anche lì, per la verità, occorre che il conto sia capiente).

La valutazione sarà effettuata congiuntamente da Commissione, Bce e Mes (se del caso anche Fmi): in caso di disaccordo, la Commissione deciderà sulla sostenibilità del debito pubblico e il Mes sulla capacità di rimborso del prestito. Già oggi è necessario negoziare un protocollo d’intesa che precisa le condizioni contenute nel dispositivo di assistenza finanziaria. Insomma, il nuovo testo dice che il re è nudo (e questo ha spaventato qualcuno che forse voleva nascondere la testa sotto la sabbia), ma non lo ha denudato – cioè, fuor di metafora, non è la causa dell’eventuale crisi. Il problema è sempre lo stesso: occorre ridurre il debito pubblico.

Questo compromesso può risultare deludente in un senso o nell’altro, ma certo non implica un completo rovesciamento della situazione pre-esistente. Semmai, con la riforma del Mes siamo giunti a un passo dal riprendere la strada per completare le riforme dell’eurozona lasciate in sospeso nel 2012. Impuntarci ora per una questione di parole sarebbe folle. Con o senza quei riferimenti, se il debito italiano fosse effettivamente insostenibile ci verrebbe comunque richiesta una ristrutturazione. I mercati lo sanno e per questo lo spread durante il governo gialloverde era salito significativamente – e ha ripreso a farlo, seppure in modo assai più moderato, quando i segnali di discontinuità sul piano delle politiche economiche sono apparsi minori di quanto ci si attendeva.

Non è puntando i piedi che si otterrà qualcosa in Europa. Come l’esperienza insegna, si finirebbe per isolarsi politicamente. Piuttosto, usiamo la goodwill guadagnata in questi primi mesi di governo per ottenere qualcosa nelle altre riforme in discussione. Occorre istituire uno strumento di bilancio per promuovere convergenza e competitività, introdurre un safe asset europeo e, soprattutto, completare l’unione bancaria con un sistema di garanzia europeo dei depositi che consenta di spezzare definitivamente il legame tra crisi bancarie e rischi per i debiti sovrani.

Dopo le timide e ancora insufficienti dichiarazioni del ministro tedesco Scholz, anche la nuova componente del Comitato esecutivo della Bce Schabel ha detto in un’intervista che è nell’interesse della Germania attivare il sistema e il Presidente dell’eurogruppo Centeno si è dichiarato pronto a portare avanti con celerità la lungamente attesa riforma. Ovviamente, l’ultimo passo è quello decisivo ed è essenziale per noi evitare che venga ponderato il rischio Paese. È questa la partita su cui dovremmo impegnarci: la pretesa di scappare col pallone del Mes rischia di vederci perdenti su entrambi i campi.

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

Prossimi appuntamenti

The European Business Code Project, Europa experience-Davide Sassoli, Piazza Venezia 6, Roma, 29 settembre 2023

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