Con la sola (pur notevole) eccezione dell’Economist, le più autorevoli testate internazionali si sono nettamente schierate per il Si nel referendum. Altrettanto dicasi per i leader dei principali paesi dell’occidente, a partire da Obama e dalla Merkel. Per parte loro, poi, banche, fondi, investitori e analisti finanziari hanno da tempo manifestato serie preoccupazioni per l’evoluzione del quadro politico in Italia e, più in generale per l’euro, in caso di vittoria del no.
Indiretta conferma di questi timori sono la significativa crescita dello spread che nei giorni scorsi è schizzato oltre a quota 190 e la flessione registrata dalla borsa italiana. Nulla di strano in tutto ciò: è del tutto naturale che l’esito di un referendum carico di valenze politiche, in un momento così delicato per una serie di congiunture sfavorevoli (Brexit, Trump, crisi del sistema bancario, ecc.), preoccupi i nostri partner e, a maggior ragione, i mercati.
Dopotutto l’Italia è “too big to fail” e un’eventuale crisi finanziaria, conseguente a un vuoto politico a Roma, avrebbe inevitabili ripercussioni sull’Unione europea. Non sempre, però, la spiegazione più ovvia è pacificamente accolta. Talora, quando non si trovano migliori argomentazioni per contrastare un fenomeno sociale o politico, se ne attribuisce l’origine a un complotto. E quanto più la tesi è suggestiva e fa colpo sull’immaginazione, tanto più facilmente finisce per affermarsi nell’opinione pubblica, benché sfidi senso comune e logica e manchi di alcun riscontro probatorio.
Gli esempi della teoria dei complotti nella storia politica ed economica recente del nostro paese sono numerosi: dal delitto Moro all’avvento del governo Monti fino al complotto dei frigoriferi abbandonati a Roma. Si pensi poi alla grande bufala del presunto complotto ordito sul Britannia (il panfilo della corona britannica) nel 1992, per favorire il programma di privatizzazioni e “svendere” così la nostra industria pubblica alla finanza anglosassone.
La storia si ripete con il dibattito sul referendum costituzionale, che ha toccato il fondo con la polemica che da qualche mese si trascina sul web sull’asserito complotto della finanza internazionale e dei poteri forti “neoliberisti” per sostenere il si e il governo Renzi. La teoria, che di per sé non meriterebbe alcuna attenzione, ha tuttavia avuto ampio spazio.
Perfino il Ministro Padoan si è trovato a doverne parlare in un’intervista al Corriere della Sera, spiegando che “i mercati sono più nervosi perché c’è incertezza sulla prosecuzione del processo di riforme.” In altri termini: l’economia vuole stabilità.
La semplice verità, che i complottisti nostrani preferiscono ignorare, è che i nostri partner e gli investitori sono indifferenti alle tecnicalità delle modifiche costituzionali e alle argomentazioni dei puristi assertori dell’intangibilità della “Costituzione più bella del mondo”. Poco conta se vi saranno occasionali conflitti di competenza tra Camera e Senato. La semplificazione conseguente alla fine del bicameralismo perfetto, la riduzione dei poteri delle Regioni e il rafforzamento dell’esecutivo – che costituiscono l’architrave della riforma – in sé convincono.
L’argomentazione dell’Economist e di molti oppositori di Renzi per cui è meglio votare No perché il processo di revisione costituzionale non è abbastanza esteso è fallace e, come si suol dire, prova troppo. È, infatti, illogico opporsi a un primo passo nella giusta direzione perché si tratta appunto solo di un primo passo. E comunque, la priorità ora è la continuità nell’azione riformatrice di questo governo. Per quanto talora non abbiano risposto a pieno alle aspettative riposte, le riforme ci sono state.
Il consenso in campo internazionale è che il governo affronti – sia pure in misura non sempre sufficiente – le partite giuste (mercato del lavoro, riduzione del carico fiscale, giustizia, pubblica amministrazione, ecc.). Può sembrare poco, ma guardando alla storia recente del nostro paese non lo è. La prospettiva realistica, in caso di vittoria del No, è di una crisi politica che apre le porte a un governo tecnico, probabilmente fondato su una grosse Koalition, incaricato di adottare una nuova legge elettorale e portare il paese a nuove elezioni.
In pratica, per un periodo indeterminato (da sei mesi a un anno e mezzo) il processo di riforme si arresterà e ci si preparerà alle elezioni (con tutti gli inevitabili “regali” che il Parlamento elargirà ai diversi gruppi d’interesse). Se, nonostante tutti gli sforzi attuali, riusciamo a malapena a contenere il deficit e arrivare a una crescita del Pil di un punto, quale può essere l’impatto di un anno o più senza un governo con l’autorevolezza necessaria per trattare in Europa e imporre le riforme necessarie in Italia? L’Italia non è il Belgio che è rimasto per un anno e mezzo con un governo dimissionario, senza subirne gravi conseguenze.
Che dire, poi, dell’impatto sull’euro che un’eventuale nuova crisi italiana potrebbe avere. La moneta unica si trova ancora in uno stato di salute precario e una ricaduta potrebbe esserle fatale. Si è scritto che se il referendum dovesse innescare il disfacimento dell’euro, ciò significa che la moneta è già così fragile che comunque la sua distruzione sarebbe segnata. Il ragionamento non convince: se anche così fosse, perché accelerare gli eventi. Oggi l’Unione attraversa un periodo di gravi difficoltà e vuoto di leadership.
La situazione potrebbe essere assai molto diversa con un quadro politico più sereno, dopo le elezioni in Francia e Germania del 2017, e con una più chiara prospettiva della Brexit. Per il momento meglio prevenire che curare. Come nella favola dei vestiti dell’imperatore, gli osservatori internazionali e i mercati danno un giudizio sull’azione di governo e la riforma costituzionale, scevro dai pregiudizi della politica politicante interna. Altro che complotto. Gli operatori finanziari sono per definizione pragmatici e agiscono in base ad aspettative razionali.
Poiché possono scegliere liberamente dove allocare i propri investimenti, perché dovrebbero continuare a investire nel nostro paese con tutte queste incertezze sul quadro domestico e internazionale? La loro reazione, in fin dei conti, non è molto diversa da quella che, come direbbe Arbasino, farebbe la casalinga di Voghera per proteggere i propri risparmi.