Se tutto il resto non funziona … fai causa. Questo sembra essere il nuovo trend in materia di riduzione delle emissioni di CO2. I ritardi e le omissioni dei governi nel dare esecuzione agli impegni assunti sul piano internazionale (o comunque stabiliti da strumenti di soft law) vengono sempre più di frequente portati nelle aule dei tribunali. Ma è un bene? E soprattutto ci saranno risultati concreti o è un fenomeno che ha solo una valenza politica e simbolica?
Negli ultimi mesi, sono state emanate due importanti sentenze, in Germania e Olanda, che hanno fatto molto discutere, cui se ne aggiunge una terza appena pronunciata dal Consiglio di Stato francese. E anche in Italia è stata intrapresa il mese scorso una class action contro lo Stato, promossa da alcune associazioni ambientaliste, denominata con una certa prosopopea il “giudizio universale”. Strade diverse con un comune denominatore: il tentativo di accelerare in via giudiziaria il processo di mitigazione del cambiamento climatico.
Il 29 aprile la Corte costituzionale tedesca ha, in parte, accolto le istanze di alcuni gruppi ambientalisti censurando la legge sul clima approvata a fine 2019, asserendo che la tutela del clima inerisce ai diritti fondamentali, costituzionalmente garantiti, delle nuove generazioni. Secondo i giudici di Karlsruhe, la legge non si pone obiettivi sufficientemente ambiziosi perché non mira a raggiungere la neutralità climatica (come previsto dall’Accordo di Parigi per il clima), ma si limita a imporre una riduzione delle emissioni di gas serra del 55% al 2030 (senza nulla dire su ciò che dovrà accadere dopo tale data). Pertanto, la Corte ha ingiunto al legislatore di precisare entro la fine del 2022 come intende perseguire l’obiettivo di “net zero”.
Analogamente, in Francia il Consiglio di Stato, accogliendo un ricorso del comune di Grande-Synthe che si riteneva minacciato dall’aumento del livello delle acque, nelle scorse settimane ha intimato allo stato francese di adottare entro 9 mesi tutte le misure utili per raggiungere l’obiettivo di un taglio del 40% delle emissioni entro il 2030. Secondo la Corte, infatti, di questo passo la Francia non sarebbe in grado di rispettare gli impegni assunti nel quadro del predetto Accordo di Parigi.
Il 26 maggio, il tribunale di Amsterdam ha invece ingiunto alla Shell di ridurre entro il 2030 il volume complessivo di emissioni di CO2 nell’atmosfera di almeno il 45% rispetto ai livelli del 2019. La sentenza, ricca di dettagli sugli effetti dei cambiamenti climatici e gli accordi internazionali in materia, postula l’esistenza di un dovere di diligenza, non scritto, che impone a Shell di tener conto dei pericoli dei cambiamenti climatici e impegnarsi, anche al di là di quanto espressamente stabilito dalla legge, per mitigarne gli effetti. Il mancato rispetto di questi principi integra, secondo la corte olandese, una lesione dei diritti dell’uomo.
La sentenza stabilisce che le attività di Shell contribuiscono in misura significativa al rilascio di anidride carbonica nell’atmosfera, tanto da causare il superamento delle emissioni di CO2 di molti Stati, inclusi i Paesi Bassi. Nel computo delle emissioni non sono state considerate solo quelle prodotte direttamente o indirettamente, ma anche quelle imputabili alle attività a monte e a valle della catena del valore (cioè dai fornitori di Shell e dagli acquirenti del suo petrolio grezzo). Queste ultime rappresentano, secondo la valutazione dell’azienda, condivisa dal giudice, l’85% del totale delle emissioni incriminate.
Il punto più critico della decisione è che non basta che Shell rispetti le norme dettate dai vari legislatori nei paesi ove opera. Benché le sue attività siano già pesantemente regolamentate, non solo dal punto di vista tecnico-ambientale, ma anche da quello economico – secondo la corte – il gruppo deve dare attuazione al contenuto degli accordi internazionali sul clima, a prescindere dal loro recepimento negli ordinamenti interni. A nulla è valso obiettare che i trattati internazionali riguardano gli Stati, che sono essi a dover ridurre le emissioni complessive (ripartendo internamente lo sforzo tra i diversi settori e imprese) e che poi saranno chiamati a risponderne in caso di inadempimento. Il tribunale di Amsterdam ha scavalcato gli Stati, ritenendo che Shell non faccia abbastanza, pur conformandosi alle norme olandesi, europee e degli altri paesi in cui opera.
Infine, il 5 giugno è stata intrapresa la prima class action contro lo Stato italiano, promossa da oltre 200 attori (tra cui 17 bambini e 24 ONG), fondata sulla sua asserita negligenza nel promuovere adeguate politiche di contenimento delle emissioni dei gas serra, violando in tal modo una molteplicità di norme nazionali e strumenti internazionali. Si tratta di un’azione promossa più che altro a scopo dimostrativo, volta cioè a mettere in evidenza gli asseriti ritardi dello Stato italiano, che però, in caso di successo, non può comportare alcun risarcimento a favore degli attori, data la sostanziale impossibilità di provare il danno da essi individualmente sostenuto.
Non sorprende che questo attivismo giudiziale, tipico dell’ordinamento statunitense, sia giunto anche in Europa. Le strade percorse dai militanti ambientalisti nei quattro paesi sono però alquanto diverse: in Germania, Francia e Italia, le azioni (rispettivamente, promosse sul piano costituzionale, del diritto pubblico e internazionale e della responsabilità civile) si inseriscono in un percorso più collaudato, essendo dirette contro lo Stato che è responsabile per l’implementazione degli impegni assunti sul piano internazionale. Nei Paesi Bassi, invece, l’azione è stata promossa contro un singolo operatore responsabile della produzione di una frazione (per quanto rilevante) del petrolio mondiale.
La deriva giustizialista esemplificata dalla sentenza olandese preoccupa perché mina la certezza del diritto e pone nuovi incerti oneri sulle aziende. Tanto per cominciare, è fondata su un danno ipotetico (non perché le emissioni di CO2 non siano responsabili del riscaldamento globale, ma in quanto ci si riferisce al danno futuro e perché a Shell vengono imputate anche emissioni sulle quali non ha alcun controllo diretto). Inoltre, rischia di essere controproducente. A differenza delle grandi cause negli Stati Uniti contro i produttori di tabacco che riguardavano collettivamente le aziende responsabili della vendita di sigarette (tanto che si risolsero con la condanna a maxi-risarcimenti la cui entità era stabilita proporzionalmente alle quote di mercato) qui si tratta di un’azione contro un solo produttore. All’ovvia obiezione che il taglio delle emissioni di Shell non si traduce di per sé in una riduzione delle emissioni globali (e neppure in Olanda), e dunque nella effettiva riduzione del danno futuro, in quanto i concorrenti potrebbero occupare lo spazio di mercato lasciato libero, il giudice ha fatto spallucce, lasciando intendere che ciascuno si assumerà le proprie responsabilità.
La decisione è stata ovviamente subito impugnata. Inoltre, com’era prevedibile, nelle scorse settimane è giunto l’annuncio che Shell sta considerando di cedere le proprie attività nel settore del gas di scisto negli Stati Uniti. In tal modo, la società potrà forse rispettare l’obbligo di ridurre le proprie emissioni, ma quelle globali non diminuiranno perché saranno altri a estrarre le medesime risorse.
A dispetto di questa differenza sostanziale – che rende la sentenza olandese molto più controversa di quella tedesca e di quella francese – c’è un comune denominatore tra i casi citati (che, probabilmente, sono solo i primi di una lunga serie a venire). Sia quando in giudizio vengono chiamati gli Stati, sia a maggior ragione quando sul banco degli imputati sono dei privati, i ricorrenti chiedono al giudice di dare attuazione fin d’ora a degli obiettivi a lungo termine, prescindendo dalle valutazioni degli scienziati e degli organi internazionali preposti periodicamente a giudicare i progressi collettivi verso il loro raggiungimento in ottemperanza ai trattati internazionali. Per quanto riguarda la neutralità climatica ipotizzata per il 2050, è davvero impossibile (e sarebbe arrogante dal punto di vista intellettuale) dettagliare per filo e per segno in quale modo si potrà raggiungere l’obiettivo oltre un certo limitato orizzonte temporale: infatti, non abbiamo ancora idea di quali saranno le tecnologie disponibili, gli scenari macroeconomici e i rapporti geopolitici in essere nei prossimi decenni. Eppure, sono proprio questi i fattori critici che condizioneranno le decisioni di miliardi di individui, milioni di aziende e decine di Stati, ciascuno nei limiti delle proprie responsabilità e capacità.
Non è un caso se gli obiettivi più ambiziosi – quelli dell’Unione europea – prevedono target vincolanti al 2030, e non al 2050, lasciando a provvedimenti successivi il compito di disegnare i prossimi passi. Esattamente come gli attuali obiettivi (la riduzione delle emissioni del 55% entro la fine del decennio) sono l’ultimo anello di una catena iniziata molti anni fa: l’impegno a tagliare la CO2 dell’8% entro il 2012 (assunto alla fine degli anni Novanta) e, successivamente, del 20% entro il 2020 (stabilito nel 2009). Solo gli obiettivi relativamente ravvicinati nel tempo sono concretamente esigibili: è meglio impegnarsi a fare un passo oggi e uno domani, che un salto nei prossimi due giorni, perché solo in questo modo possiamo intervenire tempestivamente, correggere la rotta se necessario, tenere conto delle nuove evidenze e delle nuove tecnologie, e chiedere conto a chi non fa abbastanza.
In sostanza, la fattibilità della politica climatica dipende interamente dalla serietà e dall’attenzione con cui viene costruito il framework legale, economico e tecnologico attraverso cui azzerare le emissioni nette. Strappi giudiziari, che nei fatti scavalcano il legislatore e traducono i trattati internazionali in scelte di policy diverse da quelle già fatte, possono entusiasmare gli ultrà della causa ambientale, ma non è detto che le giovino in concreto. Per parafrasare il generale De Gaulle, la transizione ecologica è una faccenda troppo seria per essere lasciata ai giudici.