“In Italia non c’è nulla di più definitivo del provvisorio e nulla di più provvisorio del definitivo”. La battuta di Giuseppe Prezzolini rischia di essere oggi più vera che mai, e non solo nel nostro Paese. Nei mesi in cui il Covid impazzava, il ruolo dello Stato si è dilatato quasi ovunque a dismisura, ma poi non ha accennato a scendere con la curva epidemica. Anzi, anche nei mesi estivi abbiamo quasi quotidianamente letto di nuovi provvedimenti o interventi governativi di impronta sovranista, cioè volti a chiudere il mercato, bandire società straniere, adottare tariffe, aumentare il peso dello Stato nell’economia. Leggere per credere.
Partiamo dagli Stati Uniti. Chi pensa che Trump, indaffarato tra campagna elettorale e il (fallito) contenimento del Coronavirus non abbia avuto tempo per dar sfogo ai propri istinti turbonazionalisti, si sbaglia di grosso. Ai primi di agosto è intervenuto pesantemente firmando un ordine esecutivo che fissa un termine di 45 giorni oltre il quale le transazioni con ByteDance, la società cinese proprietaria di TikTok, saranno vietate, spingendola così di fatto a vendere la propria partecipazione nelle operazioni di TikTok negli Usa. Sono in corso negoziati con due cordate guidate da Microsoft/Walmart e Oracle e paradossalmente il presidente ha rivendicato per il governo statunitense il diritto a una “commissione” sulla vendita. Analoga previsione riguarda WeChat, l’app di proprietà della Tencent più usata dagli immigrati cinesi o di origine cinese. Alla scadenza del predetto termine è verosimile che l’app non sia più scaricabile dai negozi online negli USA. E ancora: il 17 agosto il Segretario per il Commercio, Wilbur Ross, ha annunciato che d’ora in poi ogni società che intenda vendere a Huawei chip concepiti o costruiti con una tecnologia statunitense deve prima ottenere una licenza. Di fatto ciò mette a repentaglio la supremazia della società nella tecnologia 5G (costringendola a riorientare gli acquisti delle chip). Infine, il 25 agosto il Dipartimento del Tesoro ha per la prima volta dato applicazione a una normativa adottata nello scorso mese di aprile che consente di adottare dazi doganali nei confronti degli Stati che manipolano la valuta per trarne vantaggi per le proprie esportazioni. Una norma pensata, ovviamente, per la Cina, ma che questa volta è stata applicata agli scambi con il Vietnam.
Anche l’Europa ci ha messo del suo, rivendicano la propria sovranità. A metà giugno, per esempio, è stato pubblicato un libro bianco della Commissione sulle distorsioni nel mercato interno causate dalle sovvenzioni di paesi terzi (cioè non appartenenti all’UE). Per il momento è solo una consultazione aperta al pubblico fino al 23 settembre, ma c’è da attendersi a breve una serie di proposte legislative che, anche in questo caso, sono pensate principalmente per la Cina, ma finiranno per applicarsi ad altri Stati (USA in primis) ingenerando nuovi conflitti e inevitabili rappresaglie. Nella stessa direzione vanno le proposte di riforma del Digital Service Act e l’introduzione di un “new competition tool”: al di là delle tecnicalità, si tratta di misure pensate per mettere i bastoni tra le ruote alle grandi piattaforme digitali, la maggior parte delle quali americane. In un articolo, pubblicato da Il Sole 24 ore il 25 agosto, il Commissario Breton ha poi rivendicato apertamente la sovranità tecnologica europea, pur dando atto che “non si tratta affatto di cedere a tendenze dannose e controproducenti all’isolamento o al protezionismo, che sono contrarie ai nostri interessi, ai nostri valori e alla nostra cultura”. Nondimeno, parla di sovranità digitale, sicurezza e difesa, rafforzamento delle catene del valore europee, diversificazione degli approvvigionamenti essenziali, e rilocalizzazione di determinati tipi di produzione. Una terminologia più confacente a uno Stato nazionale che vuole competere economicamente e difendersi militarmente che a un’organizzazione internazionale regionale che si prefigge la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne; l’instaurazione di un mercato interno e lo sviluppo sostenibile dell’Europa; la lotta all’esclusione sociale e alle discriminazioni; la coesione economica, sociale e territoriale e la solidarietà tra gli Stati membri; l’unione economica e monetaria, che ha per moneta l’euro; etc.
E veniamo infine a casa nostra, all’Italia, dove pure gli esempi non mancano: dalle polemiche relative alla trattativa con Atlantia per la cessione di Autostrade, al tormentone agostano sulla rete unica (con tanto di intervento a sorpresa del governo per orientare le decisioni del consiglio di amministrazione di TIM e intervista nella quale si vuole avocare al governo le decisioni sugli investimenti di una costituenda società a prevalente capitale privato). Merita piuttosto segnalare l’ennesima modifica della disciplina del Golden Power con l’attribuzione della facoltà di bloccare la vendita di Borsa Italiana alla Consob cui si aggiungeva il tentativo (per il momento sventato, ma non si sa mai in fase di conversione) di allargare ulteriormente i poteri del governo in materia, con un’altra norma adpersonam.
La tendenza imperante allo statalismo e al sovranismo economico, dunque, non solo non si arresta, ma anzi continua imperterrita, trovando sempre nuovi fautori. Nella prima metà del 2020, sono state censiti 1.245 provvedimenti sul commercio internazionale: di questi, 878 sono finalizzati a limitare gli scambi. I paesi più colpiti sono proprio gli Usa, l’Europa e la Cina – che evidentemente sono intervenuti per danneggiarsi a vicenda – e, in Europa, a pagarne il prezzo sono le nazioni maggiormente versate nell’export, come l’Italia. Queste misure porteranno inevitabilmente a una maggiore conflittualità, con acrimoniose battaglie legali (quella per TikTok, per esempio, è appena iniziata e molte altre seguiranno). Gli investimenti finiranno per spostarsi verso giurisdizioni più accoglienti, con poteri autorizzatori meno invasivi. Le filiere produttive e i traffici commerciali verranno dirottati per aggirare gli ostacoli. In definitiva, il paradosso è che delle misure asseritamente ideate per favorire la ripresa, contribuiranno invece a ritardarla. E non si potrà neppure parlare di eterogenesi dei fini, perché tutto ciò è solo la naturale conseguenza di queste politiche.