La Penisola del Tesoretto
30/05/2013 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Tesoretto” è un neologismo utilizzato nel 2007 per la prima volta da Tommaso Padoa Schioppa per indicare un gettito fiscale superiore alle attese. Da allora, la parola è stata frequentemente utilizzata nel gergo politico, spesso a sproposito perché i fondi attesi in realtà non c’erano.

Le parole però sono importanti e creano delle aspettative. Parlare di “tesoretto” in occasione della chiusura della procedura di infrazione europea per deficit eccessivo contro l’Italia è fuorviante. Dimentichiamola dunque e guardiamo in faccia la realtà. La fine dell’infrazione significa che c’è denaro da spendere per nuovi investimenti? L’Italia può allentare di nuovo i cordoni della borsa? Non è così. Non si tratta certo di un via libera alla creazione di deficit ulteriori.

Quello ottenuto in Europa è un risultato importante, ottenuto grazie ai sacrifici chiesti agli italiani negli ultimi due anni. Sarebbe stato certamente meglio avvicinarsi al pareggio di bilancio tagliando le spese piuttosto che aumentando le tasse, ma l’equilibrio dei conti era un obiettivo imprescindibile. Il suo raggiungimento consente al nostro paese di tirare il fiato, ridando un segnale di fiducia ai mercati. Non siamo però ancora arrivati alla meta. La verità è che siamo in mezzo al guado. Eppure la politica italiana appare animata da una pericolosa tentazione. Come il bambino appena uscito dal castigo che già pensa alla prossima marachella, i partiti sembrano solo pensare a come spendere soldi che ancora non è certo ci siano, senza considerare che il bilancio dello Stato e i mercati non sono un gioco. Non possiamo permetterci il lusso di fare altri capricci e dovremmo piuttosto approfittare della maggiore flessibilità riconquistata agendo in modo virtuoso.

Come ha giustamente sottolineato il Presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, l’obiettivo principale dovrebbe essere quello di fare ordine dove le cose sono state lasciate alla rinfusa e, per essere più precisi, affrontare e risolvere una volta per tutte la questione dei pagamenti arretrati della pubblica amministrazione alle imprese. Si tratta di una vergogna che chiede vendetta, per l’entità dello stock (si parla di 90-100 miliardi di euro), per l’approssimazione della contabilità che nasconde la reale entità dei debiti, per i tempi inammissibili di pagamento (in alcuni casi superiori agli 800 giorni) e per la colpevole leggerezza con cui la questione è stata affrontata negli scorsi anni. E a questo si aggiungano l’incoerenza tra le regole formali (che prevedono pagamenti celeri) e il comportamento effettivo degli enti pubblici e soprattutto l’enorme danno economico che questa reticenza al pagamento sta causando in un grave contesto congiunturale come quello che stiamo attraversando.

Non si può dunque dare torto a Squinzi, quando mette il dito nella piaga e dice “Siamo in una situazione precisa e specifica di credit crunch, per alleviare le imprese la prima cosa che si dovrebbe fare è che la pubblica amministrazione metta mano al portafogli e paghi i propri debiti”. Ha ragione nel merito e nella sostanza, anche perché il mancato pagamento da parte della Pa innesca un circolo vizioso: le imprese faticano a pagare le tasse e a ottenere credito, le banche entrano in sofferenza, l’amministrazione tributaria agisce in modo conflittuale con le aziende, e i mercati scontano un debito pubblico superiore a quello dichiarato in misura “imprecisata”. Insomma, mettere le cose al loro posto è la massima priorità.

Lascia invece perplessi la retorica degli investimenti pubblici che ha riconquistato vigore in seguito al “disco verde” ottenuto in sede europea. Non c’è dubbio che alcuni investimenti siano importanti e potenzialmente utili a rilanciare l’economia. Tra quelli citati in questi giorni, merita menzionare la risistemazione dell’edilizia scolastica e la messa in sicurezza del territorio dal punto di vista idrogeologico. Ma non possiamo eludere una scomoda verità: questi investimenti sono stati messi in secondo piano per decenni rispetto ad altri a maggior tasso di clientelismo, e oggi non è possibile fare tutto e subito, né utilizzare soldi che non ci sono. E’ dunque illusorio parlare di un “tesoretto” di 12-14 miliardi di euro. Ci comportiamo come se, terminato il castigo, tutto si risolvesse in una pacca sulla spalla. Purtroppo non è così.

La maggiore flessibilità finanziaria dovrebbe essere utilizzata come incentivo per aumentare le opportunità, ma sempre all’interno di un quadro di rigore, che non può essere abbandonato. Come chiedono in tanti, è ragionevole adeguare il patto di stabilità interno, ma è irragionevole rimuovere ogni vincolo. Il patto di stabilità interno è infatti costruito in modo cavilloso e si può fare molto per renderlo più lineare come ha spiegato Luigi Marattin (economista e assessore al bilancio del comune di Ferrara). Ma da qui a chiederne l’abolizione per i piccoli comuni – come ha fatto il Ministro degli Affari regionali, Graziano Delrio – ce ne passa.

Semmai, bisognerebbe ripensare completamente la geografia dei piccoli comuni, prendendo atto del fatto che mantenere sindaci e relative strutture amministrative per popolazioni di poche centinaia di abitanti non produce alcun beneficio tangibile, mentre determina lo spreco di un mare di risorse.

Se c’è un tesoretto, in questo paese, non è quello “di carta” derivante dall’allentamento del pressing europeo, ma è quello connesso alle enormi inefficienze del settore pubblico. È lì che si possono individuare e liberare le risorse per fare quegli investimenti che tutti ritengono necessari. In questo senso, la marcia indietro sulla soppressione dei tribunalini non è un buon inizio.

Per dirla in modo forte e chiaro: la chiusura della procedura d’infrazione non equivale a un via libera alla produzione di deficit eccessivi. Quale parte della frase “il bilancio deve essere portato in condizioni di pareggio strutturale” non è sufficientemente chiara? Riflettiamoci.

Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle

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