Tra i dossier eliminati all’ultimo momento dal decreto “sblocca Italia” approvato dal Consiglio dei Ministri di venerdì scorso, uno dei più rilevanti è senza dubbio quello del taglio delle municipalizzate. Non solo perché può comportare risparmi di spesa di almeno 500 milioni nel primo anno e, nell’arco di 3-4 anni di due o tre miliardi (che comunque di questi tempi non sono pochi), ma anche e soprattutto perché è il primo banco di prova del governo sulla spending review. Inoltre, si tratta di un programma che, oltre a migliorare il livello e abbassare il costo dei servizi, potrebbe avere positive ricadute economiche liberando risorse per investimenti locali e creando sinergie tra le imprese interessate.
Ci è stato detto di attendere la legge di stabilità e ciò potrebbe comportare dei rischi per il futuro della norma. Si sa che su quest’ultima i parlamentari vanno all’assalto alla diligenza e si apre un mercato tutt’altro che trasparente. Tutto si risolve a fine anno con un maxi-emendamento che non lascia spazi e nel quale non sempre il buon senso prevale. Avremmo preferito un provvedimento ad hoc in modo da aprire un serio dibattito in Parlamento e stanare, davanti all’opinione pubblica, gli oppositori nascosti della riforma che si trovano un po’ in tutti i partiti. Renzi si troverà ad affrontare un nuovo fronte di scontro anche all’interno del suo stesso partito: già possiamo immaginare le accuse di svendite ai privati, macelleria sociale e chi più ne ha ne metta. Il paese, che è ben consapevole degli sprechi dei servizi locali, sarà dalla sua parte, ma solo se riuscirà a dimostrare fermezza e coraggio, portando a casa una riforma suscettibile di incidere significativamente sull’attuale sistema.
I governi hanno più volte cercato, senza successo, di contenere il “capitalismo municipale“. Negli ultimi anni, il fenomeno è però al contrario proliferato, in parte per eludere i vincoli sempre più stringenti del patto di stabilità interno e in parte per clientelismo (assumere personale o piazzare amici nei consigli di amministrazione). I dati pubblicati nel programma per la razionalizzazione delle partecipate localipresentato lunedì alla stampa dal Commissario Straordinario per la revisione della spesa pubblica, Carlo Cottarelli – peraltro incompleti dal momento che in molti casi non sono neppure disponibili i bilanci delle società – sono sconfortanti: circa 10.000 partecipate (in Francia sono un migliaio), perdite (palesi e no) per centinaia di milioni (le sole prime 20 società in perdita rappresentavano il 48% del totale), un vero e proprio “poltronificio” con 37.000 posti nei Consigli di amministrazione occupati da circa 26.500 persone, circa 3000 società fantasma, con più consiglieri che dipendenti, ecc.
In realtà la situazione è ancora peggiore. Alcune società, pur non avendo bilanci in rosso, hanno costi eccessivi, e chiudono in pareggio solo grazie alla generosità dei trasferimenti pubblici (si tratta delle cosidette “x-inefficienze“, cioè lo scarso incentivo all’efficienza derivante dalla consapevolezza del monopolio). Per esempio, nel caso del trasporto pubblico locale i costi di produzione sono tra un terzo e la metà superiori agli altri paesi europei. Inoltre la condizione monopolistica da un lato, la presunzione sull’impossibilità del fallimento dall’altro determinano un naturale disinteresse all’innovazione, con la conseguenza che i cittadini ci rimettono non solo sotto il profilo contabile, ma anche sotto quello della qualità e pluralità del servizio.
Cosa c’è di nuovo nel programma di Cottarelli e perché questa volta dovremmo portare a compimento una riforma che non è riuscita a tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi dieci anni? Innanzitutto, non si tratta del parto della fantasia di un “tecnico” (magari liberale). Cottarelli, infatti, si è scrupolosamente attenuto al mandato “politico” ricevuto, tanto che ha puntigliosamente citato anche il tweet con il quale Renzi lo aveva annunciato (#municipalizzate: sfoltire e semplificare: da 8000 a 1000).
Nel complesso è un programma ambizioso, ma realistico, tanto che prevede anche degli ammortizzatori sociali per far fronte alle situazioni più gravi. È poi assai diversa dal passato l’impostazione. Non più interventi settoriali, spesso privi di apparato sanzionatorio, che non venivano rispettati dai comuni e dalle società partecipate, e finivano nel dimenticatoio, ma una strategia complessiva. Il programma, infatti, si propone di (i) circoscrivere il campo d’azione delle società entro lo stretto perimetro dei compiti istituzionali, (ii) introdurre vincoli diretti sulle forme di partecipazione, (iii) fare ampio ricorso alla trasparenza e (iv) promuovere l’efficienza attraverso l’uso dei costi standard e favorendone l’aggregazione.
Il metodo è quello che, a suo tempo, avevamo suggerito anche noi: usare il bastone e la carota. Quest’ultima, consiste soprattutto nella possibilità – oggi più che mai appetibile per i comuni – di utilizzare per investimenti i fondi rivenienti dalle dismissioni al di fuori dei vincoli del patto di stabilità e nella possibilità di avere accesso a una quota del Fondo infrastrutture. Per incentivare le aggregazioni è altresì prevista la possibilità, non solo di mantenere la concessione in essere anche in caso di fusione o acquisizione, ma anche di prorogarne la scadenza per assicurare un equilibrio finanziario al nuovo soggetto risultante dall’aggregazione. Finora tutto bene, ma sembrerebbe che nei testi circolati nei giorni scorsi una proroga automatica della concessione fosse concessa anche solo per la quotazione in borsa della partecipata. E qui, iniziano i problemi perché la quotazione non fa di per sé venir meno il controllo, neppure operativo, in capo all’ente locale. Il che ci porrebbe in un possibile contrasto con le norme europee e con le regole di mercato. Oltre al danno, la beffa: trattandosi di società quotata, non varrebbero neppure i limiti ai compensi dei vertici dell’azienda.
Il bastone, invece, consisterebbe (il condizionale è d’obbligo) in riduzioni dei trasferimenti all’ente locale, responsabilità personali degli amministratori locali, sanzioni pecuniarie per gli amministratori delle partecipate. Ammesso che queste superino gli scogli parlamentari e arrivino fino al testo finale, la loro efficacia dipenderà dalla natura dei controlli e dalla loro effettiva implementazione. Certamente l’arma migliore è quella di tagliare pesantemente i trasferimenti ai comuni inadempienti o riottosi, costringendo così i sindaci a spiegare ai propri elettori i tagli ai servizi per mantenere la titolarità di qualche partecipata in più. In taluni casi – da ampliare per quanto possibile – per ovviare alle inadempienze dell’ente locale è anche previsto il potere sostitutivo del Presidente della Regione.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro
Sulla carta, sembra che – con qualche adeguamento – siamo sulla giusta strada. Per evitare le accuse di una nuova crisi di “annuncite”, però, bisogna che Renzi riesca a tramutare il programma in un provvedimento legislativo, lo faccia approvare senza troppe concessioni alle lobby degli enti locali e soprattutto vi dia attuazione in tempi brevi. Come disse Roosevelt, “Mai prima abbiamo avuto così poco tempo per fare così tanto”.