Pochi obiettivi politici appaiono più condivisi del “taglio dei costi della politica”. Ne parlano esplicitamente gli 8 punti di Bersani e quelli di Berlusconi, mentre il Movimento 5 Stelle ci ha addirittura costruito un’intera campagna elettorale sopra.
In effetti l’Italia spende, per il mantenimento dei propri organi legislativi ed esecutivi e della rete diplomatica, circa il 2,5% del Pil, pari grossomodo a un punto percentuale più di Francia, Germania e Gran Bretagna. In particolare, il nostro paese spende in misura sproprozionata sia in termini pro capite sia rispetto al Pil, se si tiene conto della popolazione (i paesi piccoli spendono relativamente di più perché non riescono a “spalmare” i costi fissi della rappresentanza su una base più ampia, mentre l’Italia è di gran lunga il più spendaccione tra i paesi di dimensioni medio-grandi). Se ne deduce che dalla lotta all’extracosto della politica possa emergere un tesoretto pari a circa 15 miliardi di euro all’anno. Da dove bisogna cominciare a tagliare però?
Molti ritengono semplicisticamente che taglio dei costi della politica equivalga a “riduzione degli emolumenti” di politici, burocrati e amministratori di società pubbliche. E’ indubbiamente vero che il Parlamento italiano costa molto e i parlamentari italiani guadagnano di più dei loro omologhi europei. Nel momento in cui si chiedono agli italiani pesanti sacrifici – dall’Imu alla Tares, per non dire del prossimo aumento dell’Iva – è giusto e politicamente opportuno che anche gli esponenti dei partiti vedano ridotti i propri emolumenti.
Purtroppo, però, se anche tagliassimo stipendi, auto blu, finanziamento pubblico ai partiti e altri benefit in modo selvaggio, recuperemmo solo una piccola parte del nostro tesoretto: nell’ipotesi più radicale, non si arriva a un miliardo di euro, che pure è una cifra consistente. La realtà è dunque assai più complessa. Sotto la generica denominazione “riduzione dei costi della politica” stanno, infatti, tre operazioni di natura profondamente diversa, almeno due delle quali richiedono tempo e cautela. In estrema sintesi, non esiste alcun silver bullet.
La prima consiste nell’eliminazione degli “sprechi” (inclusi gli emolumenti eccessivi). Questo è il tipo di intervento che il Ministro Giarda ha tentato di portare avanti con la spending review e che, in buona parte, può essere realizzato con mere scelte di bilancio o, tutt’al più, con una migliore organizzazione del lavoro all’interno delle Pubbliche Amministrazioni. Per semplicità: l’obiettivo è fare in modo che nessuno paghi un prezzo spropositato per una risma di carta. Questo è quello che la maggior parte della gente ha in mente quando si parla di taglio ai costi della politica. E’ anche l’intervento, almeno dal punto di vista tecnico, più facile ma, sfortunatamente, quello che fornisce un risparmio atteso più basso.
Per vedere dei “soldi veri”, bisogna fare un passo in più. Chiedersi, cioè, se – dati gli obiettivi istituzionali degli organismi legislativi, esecutivi e diplomatici – le funzioni di produzione siano adeguate. In altri termini, occorre cambiare i processi produttivi per assegnare maggiore trasparenza, responsabilità, efficacia ed efficienza alla PA. Si tratta però di un’operazione delicata, in quanto non presuppone semplicemente migliori scelte manageriali, ma spesso implica cambiamenti di paradigma tecnologico (si pensi al vaste programme sulla digitalizzazione) o comunque mutamenti rilevanti nel modo di operare.
Un caso interessante è quello della rete diplomatica italiana: se guardiamo ai costi aggregati, il nostro paese non spende più degli altri. Spende però peggio, come dimostra questo documento del sindacato delle feluche Sndmae, che avanza una serie di proposte molto ragionevoli – ma non di immediata realizzazione – per utilizzare meglio le risorse a disposizione del Mae. Per stare all’esempio della carta, ci stiamo adesso chiedendo quante risme si debbano acquistare. Non c’è dubbio che pagare 1,5 euro una risma di carta da 1 euro sia uno “spreco”, ma è certamente molto più gravoso per le casse dello Stato consumare 1000 risme anziché 100.
Neppure questo è, però, sufficiente. Rimane da affrontare la questione più spinosa: è davvero necessario utilizzare quella risma di carta? Cioè, fuor di metafora, quello specifico processo o quel soggetto ha ragione di esistere nell’organizzazione pubblica? Il caso più discusso è quello delle province: da anni si dibatte di abolizione, ma il massimo che si è riusciti a fare è stata una modesta riduzione del loro numero. Un problema analogo si pone per l’accorpamento dei piccoli comuni. Quello che a molti sfugge è che abolire le province o fissare una soglia minima per le dimensioni dei comuni non è una mera politica di bilancio.
E’, piuttosto, una scelta relativa al disegno istituzionale che ha anche effetti di bilancio. Si tratta, dunque, di una decisione politica in senso stretto. Abolire le province – un provvedimento su cui siamo peraltro d’accordo – non si esaurisce nello smettere di pagare lo stipendio a giunte e consigli. Vuol dire anche e soprattutto individuare a quali livelli di governo – verso l’alto o verso il basso – vadano trasferite le loro responsabilità (dall’edilizia scolastica alla manutenzione delle strade fino alla gestione del territorio) oppure se alcune funzioni debbano cessare di esistere.
Tutto ciò non può essere ridotto a formalità o questione gestionale: presuppone una visione chiara di come il paese debba funzionare e di chi debba fare cosa, perché e secondo quali modalità o procedure. E’ un ripensamento di ampio raggio sul modo in cui gli snodi decisionali della macchina pubblica devono essere articolati.
Non si può, infine, dimenticare un aspetto ulteriore e fondamentale: l’execution. Troppo spesso, in questi anni, abbiamo visto provvedimenti teoricamente rivoluzionari arenarsi su un regolamento attuativo mal (o mai) scritto. Ce lo ha ricordato Roger Abravanel: “il governo non fa ciò che dovrebbe fare, cioè ‘eseguire’, attuare le leggi (varate dal Parlamento), e questo per mancanza di leadership politiche adeguate”.
Sullo stesso tema, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi avevano sostenuto: “solo i dirigenti, infatti, sono in grado di redigere i decreti attuativi, senza i quali la nuova legge è inefficace. Basta ritardarli o scriverli prevedendo norme inapplicabili per vanificare la riforma”. Sono due facce della stessa medaglia: l’alta burocrazia è un potere irresponsabile, per definizione orientato alla difesa dello status quo, in assenza di una guida politica forte.
Insomma, la buona notizia è che si è creato ormai un generale consenso sulla necessita di tagliare i costi della politica. La brutta notizia è che non si tratta di un facile esercizio di cesello né di un’operazione da effettuare col machete. Ci vogliono anzitutto la volontà e la capacità di imporre le dure decisioni che ne conseguono. La prima grande riforma è trovare leadership credibili.
Carlo Stagnaro, Alberto Saravalle.
Questo articolo è stato pubblicato su L’Huffington Post, l’11 aprile 2013.