Letta: tra leadership e compromesso
22/10/2013 di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro.

Negli ultimi mesi ci siamo spesso lamentati della paralisi decisionale che ha reso impossibile avviare le riforme strutturali che potrebbero portarci fuori dalle secche nelle quali ci troviamo. A ben vedere, però, molte altre grandi democrazie si sono trovate in queste settimane nelle sabbie mobili dell’indecisione. Pur avendo seguito percorsi diversi, avendo leggi elettorali e assetti istituzionali profondamente differenti, sono state accomunate da una condizione di stallo, a dispetto delle emergenze economiche che richiedono risposte rapide. Si tratta di una condizione endemica? E come se ne esce? La risposta – solo all’apparenza un ossimoro – è più leadership, ma anche compromesso (costruttivo).

Negli Stati Uniti il problema è stato più evidente che altrove: il governo ha operato per diversi giorni a ritmi ridotti a causa dello “shutdown” causato dal mancato accordo tra Presidente e Congresso sul finanziamento delle attività federali. In Germania la Merkel, pur avendo trionfato alle elezioni, fatica ancora a formare un governo. In Francia il primo ministro Ayrault affanna dietro agli eventi, rinviando le decisioni difficili; nel frattempo la popolarità del presidente Hollande è a picco e il Front National vola nei sondaggi. In Italia, nonostante gli sforzi profusi da Letta, nei mesi scorsi si sono effettuati perlopiù aggiustamenti di bilancio (più dal lato delle entrate che da quello delle spese), mentre i partiti che sostengono la coalizione hanno continuato a giocare le loro battaglie politiche.

Al di là di queste apparenti similitudini, le situazioni però sono profondamente diverse da un paese all’altro, anche se nel sottofondo si intravede lo stesso scenario di ruggini e attriti politici.

Negli Stati Uniti, la situazione di “divided government” – con un democratico alla Casa Bianca e una maggioranza repubblicana al Congresso – ha determinato un’impasse per una questione tecnica. Il Congresso, infatti, ha cercato di costringere il Presidente a tagliare i fondi per il sistema sanitario nazionale (il c.d. Obamacare inviso ai repubblicani) a favore di altri progetti (i veterani, i parchi nazionali, ecc.). Lo scontro si è poi accentuato con il dibattito sulla legge per aumentare il limite del debito pubblico, portando il paese sull’orlo deldefault. I repubblicani avevano un argomento a prima vista forte: l’esplosione del debito pubblico, passato dal 66,3% del Pil nel 2007 al 106,3% nel 2012, e che si prevede cresca fino al 110,4% nel 2014. I democratici, però, avevano buon gioco nel rispondere che non è mettendo il paese in default che si possono risolvere i problemi. Il braccio di ferro è stato teso.

Il Presidente si è rifiutato di negoziare apertamente con i repubblicani sostenendo che non era disponibile a farlo con la pistola puntata alla tempia e, com’era prevedibile, all’ultimo minuto i repubblicani hanno dovuto fare marcia indietro. Il default era un rischio che nessuno si poteva assumere. La battaglia però non è finita, è solo rinviata di qualche mese.

In Germania, Merkel ha vinto le elezioni in modo netto, conquistando l’approvazione tanto sul suo mandato precedente, quanto sul nuovo programma. La Cancelliera non dispone però, di una maggioranza parlamentare autonoma e per questo ha negoziato da un lato con i socialdemocratici, dall’altro con i verdi per verificare quale coalizione potesse garantirle una maggiore libertà di manovra. Sebbene i negoziati abbiano preso più tempo del previsto (e potranno comportare delle concessioni maggiori di quelle che l’ampiezza della vittoria elettorale farebbe presumere), si stanno concludendo grazie all’intervento decisivo di Hannelore Kraft che ha convinto la Spd a entrare al governo. Attendiamo ora, come già avvenne nel 2005, un programma condiviso fin nei dettagli della copertura finanziaria dei provvedimenti da assumere.

In Francia, la stella di Hollande si è spenta. Il partito socialista che ha una netta maggioranza è rimasto prigioniero delle proprie pregiudiziali ideologiche ed è pertanto incapace di assumere le decisioni più invise alla propria base elettorale, che sole consentirebbero di affrontare la crisi che morde. Il paese, che per decenni aveva saldamente condiviso la leadership in Europa con la Germania, oggi si trova su una strada in declino difficile da accettare. Per reazione, i francesi sembrano orientarsi verso un voto di protesta che già nel passato ha fatto dormire sonni poco tranquilli alle diplomazie europee.

Nel nostro paese, infine, destra, sinistra e centro sono in grave difficoltà. A destra, il tramonto di Berlusconi ha fatto emergere un panorama nel quale mancano interlocutori credibili per l’opinione pubblica. A sinistra, il Pd è sempre più diviso, nonostante il crescente seguito di Renzi. Il centro sta scomponendosi in gruppetti che litigano acrimoniosamente. La grande coalizione che sostiene il governo Letta di fatto si è fondata finora solo sull’impossibilità pratica di tornare alle urne a breve. Benché a parole vi siano ampie convergenze, nei fatti ben poche sono state le policy condivise. Il risultato è stato un governo sempre sotto scacco che ha dovuto troppe volte sottostare alle richieste dei partiti in perenne campagna elettorale.

Cosa ci insegnano le vicende parallele di questi paesi? La risposta viene da un recente libro di due brillanti studiosi americani (Gutmann e Thompson): The Spirit of Compromise: Why Governing Demands It and Campaigning Undermines It. La chiave per uscire dalle difficoltà sta nella capacità dei leader di trovare un ragionevole compromesso a medio-lungo termine nell’interesse del paese, al di là degli interessi di parte. Negli Usa e in Germania sta andando così. In Francia, il compromesso necessario non è con un altro partito, ma con le proprie ideologie.

Nel nostro paese, nonostante le apparenze, è mancato finora lo spirito del compromesso in senso alto. Ovvero la ricerca di una convergenza politica sulle grandi questioni, a prescindere dai ritorni immediati in termini di consensi nei sondaggi. Viviamo in perenne campagna elettorale. Tuttavia, dopo il recente scontro sulla mezza crisi di governo, il premier ha una grande opportunità: le elezioni si sono allontanate e dunque a poco gioverebbe ai partiti mantenere questa latente campagna elettorale. E’ tempo per Letta, rafforzato dai recenti riconoscimenti sul piano internazionale (da ultimo quello di Obama) di far valere la propria leadership, come da tempo scriviamo su queste colonne, imponendo l’agenda politica e accettando le responsabilità che ne conseguono.

Le settimane dello scontro con Berlusconi ci avevano fatto ben sperare, ma poi la legge di stabilità è parsa ancora timida. Deve continuare sulla strada della fermezza se vuole restare nella storia politica del nostro paese. Come diceva De Gasperi, con una frase spesso abusata, ma non per questo meno vera: “la differenza tra un politico e uno statista sta nel fatto che il politico pensa alle prossime elezioni lo statista alle prossime generazioni”.

Alberto Saravalle e  Carlo Stagnaro

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