L’Europa impantanata sogna la spinta di un Delors
18/04/2016 di Alberto Saravalle.

Una vecchia storiella racconta di un naufrago su un’isola deserta che affronta l’oceano e dopo un giorno di nuoto, quando ormai la terra ferma è in vista, torna indietro perché pensa di non farcela più. L’Europa è in una situazione simile. Rischia di perdersi per il timore dell’ultimo miglio, senza considerare che il costo a questo punto sarebbe infinitamente superiore a quello richiesto per completare gli sforzi e cercare un maggior grado d’integrazione. Chi si oppone a questa pericolosa china, lo fa generalmente per motivi idealistici, richiamando le ragioni che hanno consentito di superare atavici conflitti e creato una zona di grande benessere per 500 milioni di persone. Anche se i vantaggi dell’integrazione nella vita di tutti i giorni (dalla libera circolazione, all’Erasmus, per non dire della moneta unica) sono sotto gli occhi di tutti, il crescente successo dei movimenti antieuropeisti è la prova che non bastano. Occorre dunque cambiare narrativa, abbandonando la retorica europeista, che tanto oggi non raccoglie consensi, per concentrarsi piuttosto sui costi che già sopportiamo per effetto dei limiti all’integrazione europea e che sopporteremmo in misura assai maggiore se prevarranno le forze secessioniste o nazionaliste.

Per esempio, secondo uno studio recente effettuato dalla Fondazione Bertelsmann, nel caso gli accordi di Schengen venissero completamente meno, ipotizzando un incremento nel costo delle importazioni dell’1%, il costo per l’Europa, nell’arco di 10 anni, sarebbe di circa Euro 470 miliardi (di cui 50 per l’Italia). Nell’ipotesi più pessimistica di un incremento del 3% il costo supererebbe i 1.400 miliardi (150 per l’Italia). Nelle scorse settimane, poi, l’Associazione degli aeroporti europei ha lanciato un severo monito quantificando in diverse centinaia di milioni di euro il costo per adeguare nuovamente gli aeroporti ai flussi di viaggiatori in un’Europa senza Schengen.

Analogamente, la prospettiva della fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione è stata oggetto in questi mesi di numerose analisi per valutarne il possibile impatto in termini economici. Ovviamente variano gli assunti di base, a seconda delle posizioni politiche di partenza e soprattutto dei diversi scenari ipotizzati, e pertanto variano anche le conseguenze economiche. Tra i tanti studi al riguardo, merita citarne uno tra i più recenti predisposto da Confederation of British Industry che quantifica in 100 miliardi di sterline e quasi un milione di posti di lavoro il costo per il Regno Unito. Ma i costi sarebbero elevati anche per i paesi dell’Unione, non solo per i maggiori trasferimenti a carico dei rimanenti 27 Stati, ma anche per una verosimile riduzione delle esportazioni, degli investimenti e più in generale per la minore apertura dei mercati.

In generale l’idea non è nuova: già Michel Albert-e James Ball nel 1983 e poi il nostro Paolo Cecchini nel 1988 curarono la redazione di relazioni che si sforzavano di quantificare in termini economici i possibili vantaggi che sarebbero derivati dal completamento del mercato interno (la famosa Europa del 1992). L’intuizione, rivelatasi felice, era di determinare i benefici derivanti dall’adozione di politiche comuni in settori di competenza dell’Unione (e per converso il costo economico della mancata adozione di tali politiche), sia in termini di PIL sia di risparmi o maggiori efficienze.  Allora il progetto funzionò, spronando gli Stati a completare il mercato interno, ma soprattutto trasmettendo a tutti i cittadini europei la consapevolezza dei vantaggi che ne avrebbero personalmente tratto.

L’idea è stata ripresa da qualche anno. Vi è, infatti, un’Unità Valore Aggiunto all’interno del Parlamento europeo che si occupa proprio di calcolare il valore aggiunto europeo (ovvero i vantaggi dell’integrazione) e il costo della non-Europa. Il rapporto generale si basa su diversi studi settoriali che prendono in considerazione molteplici campi: dal mercato unico digitale al completamento del mercato interno e dei trasporti, dalla ricerca e sviluppo all’Europa dei cittadini, dalla politica sociale alla politica di sicurezza, ecc.. La terza edizione di questo rapporto, pubblicata nell’aprile 2015, quantificava in circa 1.600 miliardi, pari a circa il PIL italiano e al 12% del Pil complessivo dell’Unione, il potenziale beneficio annuo per l’Unione. Da allora sono stati pubblicati altri tre studi settoriali sul costo della non-Europa nel settore dell’acqua, della cosiddetta “sharing economy” e l’ultimo, solo poche settimane fa, in materia di criminalità e corruzione.

Per quanto questi studi non debbano essere presi alla lettera, perché si fondano su molti assunti che sono difficilmente verificabili, indubbiamente servono per riportare l’attenzione su una semplice verità: avere più Europa non è un sogno per anime belle, ma ci conviene. Senza nulla togliere alle esigenze di una sana politica fiscale, la tanto agognata crescita passa principalmente per l’attuazione di queste misure che favoriscono gli scambi transfrontalieri e riducono i cosiddetti transaction costs in tutti i settori di pertinenza, e pertanto su di esse dovrebbe concentrarsi l’attenzione dei governi e della Commissione. E’ sconfortante vedere come invece ci si perda spesso a guardare la pagliuzza dei decimali di disavanzo del patto di stabilità, dimenticando la trave delle politiche di liberalizzazione, del completamento del mercato, delle riforme strutturali, ecc. Manca purtroppo una forza propulsiva che, come ai tempi della Commissione Delors, spinga a una rapida implementazione di queste normative. E così sopravviviamo principalmente grazie al bazooka di Draghi. D’altronde, si fa la guerra coi soldati che si hanno.

(in La Repubblica, Affari e finanza, 18 aprile 2016)

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