Da un recente sondaggio sembra che solo il 32% degli italiani abbia fiducia nell’Unione europea e un terzo sarebbe addirittura pronto a uscire dall’euro (anche se a molti non è chiaro cosa ciò voglia dire e quali implicazioni ne conseguirebbero). E’ difficile dire se, al di là della facile retorica federalista, vi sia mai stato vero amore per l’Europa ma oggi è indubbio che, tutt’al più, può parlarsi di un matrimonio d’interesse. Quali siano i vantaggi per l’Italia dall’appartenenza all’Unione è, tutto sommato, abbastanza facile a dirsi, anche se in questi ultimi tempi sono spesso dimenticati. Più difficile, almeno a prima vista, è invece determinare perché sia importante per l’Ue che l’Italia, nonostante tutte le sue manchevolezze e inadempienze, resti nell’eurozona e più in generale sia vincolata alle politiche di Bruxelles. Il premier Matteo Renzi ha sottolineato il nostro storico ruolo nel corso del recente vertice europeo. E’ necessario però che tale condivisibile rivendicazione non sia una semplice questione di orgoglio e soprattutto non ci impedisca di svolgere il nostro ruolo correttamente, facendo bene i compiti a casa e spiegando che l’austerity non ce l’ha imposta l’Europa, ma è la conseguenza inevitabile di anni di spesa pubblica dissennata. Detto questo, si può cominciare a lavorare a una nuova Europa che consolidi i vantaggi acquisiti e ne porti di nuovi.
A dispetto della retorica anti-europea, i benefici non sono mancati: basta ricordare come si viveva in Europa quando, solo 25 anni fa, si facevano ancora le code alla dogana, vigevano restrizioni valutarie, si pagavano le commissioni per il cambio valuta, gli standard tecnici (per auto, televisioni, prese elettriche) erano diversi per ogni paese, ecc. Un rapporto curato da un italiano, Paolo Cecchini, aveva perfino calcolato “il costo della non-Europa“, ovvero quanto incidessero in termini economici le barriere fisiche, tecniche e fiscali che impedivano il completamento del mercato interno. Si aggiungano poi – per fare solo un altro esempio – i circa 500 miliardi di euro risparmiati dal nostro paese nell’arco di dieci anni per effetto dei minori interessi pagati sul debito pubblico, dopo l’ingresso nell’euro (il cosiddetto “dividendo dell’euro“). La lista potrebbe continuare, e sarebbe molto lunga, ma questi dati sono sufficienti per avere un’idea sommaria di quali vantaggi ci abbia portato l’Europa.
Ma noi perché siamo importanti per l’Europa? La risposta che potrebbe sembrare più ovvia è che siamo “too big to fail“: per quanto il nostro debito pubblico sia ormai in larga parte detenuto sul mercato domestico, una nuova crisi italiana avrebbe inevitabilmente gravissime ripercussioni e potrebbe mettere a repentaglio, una volta per tutte, la tenuta della stessa eurozona. Questa risposta è però insoddisfacente. Non si tratta solo dell’eurozona, ma sarebbe lo stesso mercato interno a entrare in crisi. L’Italia è, infatti, un partner importante sul piano economico (la seconda economia manifatturiera), un mercato di sbocco con circa 60 milioni di consumatori, un produttore di beni intermedi che contribuiscono a rendere competitive altre industrie europee, un crocevia per le reti europee, ecc. Che piaccia o no, le economie dei paesi dell’Unione sono ormai inestricabilmente interconnesse. Per non dire poi di come rischierebbero di arenarsi, tra veti reciproci, i processi legislativi, in assenza di una netta leadership in Europa (dopo la fine dell’asse franco-tedesco).
Su queste basi di reciproco interesse possiamo cercare di ricostruire anche il nostro rapporto con l’Europa. Finora, da un lato ci siamo schermati dietro alle imposizioni della Commissione per giustificare le riforme necessarie, che non avevamo il coraggio o la forza di adottare, contribuendo così ad alimentare il sentiment antieuropeista nel paese. Dall’altro lato, abbiamo cercato, per quanto possibile, di eludere le normative (quando addirittura non si trattava di aperte violazioni), creandoci così una fama d’inaffidabilità che spiega il sussiego con cui i nostri leader vengono visti a Bruxelles.
Per superare tale situazione di impasse, bisogna innanzitutto cambiare questa “narrazione”. Occorre spiegare che non esiste un “noi” e un “loro”: il nostro interesse coincide con quello dell’Ue. Per tornare a crescere, anziché barcamenarci in un inarrestabile declino, dobbiamo realizzare quelle riforme da tempo predicate da Bruxelles che sole ci consentiranno di rimuovere le zavorre strutturali che rallentano la dinamica della produttività totale dei fattori nel nostro paese.
Così facendo potremo anche riacquistare maggiore credibilità e svolgere un ruolo importante nel rilancio della costruzione della casa europea. In realtà l’Ue ha bisogno dell’Italia per superare la dicotomia tra l’approccio “tedesco”, che riduce tutto a una (pur comprensibile e necessaria) questione contabile, e quello “francese”, che fa perno sulla regolamentazione “top down” e sulla forza (e l’autorevolezza) delle burocrazie. Entrambi si sono rivelati insufficienti e inadeguati. L’Europa potrà ripartire, superando le resistenze dei movimenti euroscettici, solo se saprà parlare un linguaggio diverso che renda evidenti i vantaggi concreti della maggiore integrazione e della conseguente erosione della sovranità nazionale. Le parole d’ordine devono essere liberalizzazioni, concorrenza, spazio giudiziario europeo, reti transeuropee, politica energetica (che elimini le rendite e assicuri certezza negli approvvigionamenti).
L’avvento di un nuovo premier con programmi di riforma ambiziosi, proprio in occasione del semestre di presidenza italiano dell’Ue, può essere l’elemento catalizzatore per cambiare approccio e narrazione. Conviene a noi, serve all’Europa.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro