Provate a immaginare uno scenario ipotetico in cui anche in Italia si vada al voto per la secessione del Veneto. I sondaggi danno margini bassissimi di differenza tra il sì e il no. Il presidente del Consiglio in carica gira le piazze di Padova, Venezia, Treviso, ecc. per convincere gli indecisi a votare no, promettendo delle riforme che aumenteranno il grado di autonomia della Regione sul piano fiscale, del welfare e dell’utilizzo delle risorse proprie ben al di là di quanto preveda ora il Titolo V della Costituzione. Le telecamere dei telegiornali che riprendono il pubblico nelle piazze mostrano volti tra l’incredulo e il divertito. Ecco, la differenza tra l’Italia e il Regno Unito è tutta qui. Quando Cameron – sia pur tardivamente – ha promesso agli scozzesi di accordare loro maggiori poteri in quei settori, gli scozzesi gli hanno creduto. E anche il leader dei separatisti scozzesi Salmond, nel discorso con il quale ha riconosciuto la sconfitta, si è limitato a dire di fare presto. In Italia, anche confidando nelle migliori intenzioni, un elettorato disincantato sa bene che poi tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. E quindi, in un versante così drammatico per la storia, non solo nazionale, ben difficilmente i veneti si sarebbero lasciati convincere dalle promesse di riforme.
Il problema – sotto gli occhi di tutti in queste ultime settimane – è la credibilità dell’azione di governo. Non si tratta del solito discorso, comune a tutti i paesi, dell’inaffidabilità delle promesse elettorali dei politici: il “milione di posti di lavoro” di Berlusconi, per intendersi. Anche dando per serie le promesse fatte, le nostre difficoltà derivano dall’incapacità di realizzarle. Di far sì cioè che il Parlamento adotti i provvedimenti legislativi necessari, nei termini promessi entro tempi ragionevolmente brevi e con efficacia misurabile. Il che, è dimostrato, da noi non accade in parte per le lungaggini causate dal bicameralismo perfetto e in parte per le strane maggioranze che da diversi anni si susseguono e comportano una negoziazione continua all’interno della stessa area di governo. Emblematico è oggi il caso del Jobs Act che trova i principali oppositori all’interno del partito di maggioranza relativa che esprime lo stesso Presidente del Consiglio che lo ha ideato e ne ha fatto uno dei propri cavalli di battaglia.
Oltre a questi inconvenienti, poi, abbiamo l’ulteriore dilatazione dei tempi per effetto della tecnica legislativa sempre più frequentemente utilizzata. La legge in sé non è operativa perché mancano decine di regolamenti che devono essere adottati dai Ministeri competenti. Se poi è richiesto il concerto di più di un Ministero è come dire che la legge è definitivamente affossata. Pochi mesi fa un’inchiesta del Sole 24 Ore aveva rivelato che a dicembre scorso erano ancora 465 i decreti dei governi Monti e Letta da attuare. E la situazione non è molto cambiata da allora. Spesso i problemi più spinosi sono rinviati a un momento successivo, se non ai regolamenti di attuazione ai decreti delegati (come si vorrebbe fare ora per giustizia e lavoro). Oltre tutto, piú aumentano i rinvii ad atti successivi, e piú il decisore politico si mette in mano alle burocrazia ministeriali, annacquando la propria accountability e condannando i provvedimenti a finire ostaggio di dinamiche tutt’altro che trasparenti.
Ma questo non è tutto. Un vizio cronico della nostra politica che rallenta e annacqua ulteriormente il processo legislativo, di cui credevamo di esserci sbarazzati prima con Monti e poi con Renzi, è quello della continua mediazione con ogni corpo intermedio: sindacati, associazioni di categoria, ordini professionali, ecc. Ci era stato detto che il governo ascolta tutti (magari con una consultazione online), ma poi decide senza far ricorso alla concertazione. Non è così, perché già Monti, prima con la riforma del mercato del lavoro e poi in sede di conversione del decreto sulle liberalizzazioni, iniziò a trattare con le diverse categorie interessate, facendo comprendere che insistendo ce n’era per tutti. E così, pur in un momento tanto drammatico per il nostro paese in cui sarebbe stato possibile far passare qualsiasi riforma per quanto dolorosa, si aprirono spazi di negoziazione che allentarono l’azione del governo. Lo stesso pare accadere oggi, ad onta del tanto vantato decisionismo e delle accuse addirittura di “dittatura”, con l’attuale governo. In più di un’occasione sono stati fatti annunci poi ritrattati.
Da ultimo, merita menzionare l’apertura del Ministro Orlando a una negoziazione con i magistrati per modificare la riduzione delle loro ferie estive. Francamente, non ci pare una questione decisiva per la riforma della giustizia in Italia, ma piuttosto un importante segno della capacità di incidere sui troppi privilegi accordati nel corso del tempo alle diverse categorie. Dopo i roboanti annunci al riguardo, fare un passo indietro avrebbe una portata devastante. Non solo sul piano del merito, ma anche e soprattutto su quello della tattica: se non siamo in grado di costringere i magistrati a lavorare 15 giorni di piú, come possiamo pensare di avere la forza di ridisegnare l’intero sistema giudiziario, per non dire tutte le altre riforme che sono necessarie?
Infine, last but not least, c’è un problema di leadership che, troppo spesso, si limita alle parole. Ciò che conta, invece, sono i fatti. Le riforme realizzate. E su questo soltanto poi giudicheranno gli elettori. Insomma, il coraggio non sta nella veemenza delle affermazioni, ma nella determinazione a superare gli ostacoli che si frappongono sulla strada e nella pubblica denuncia di chi lavora nell’ombra contro le riforme.
Abbiamo sentito molte – troppe – parole in libertà in questi mesi, sia da parte di chi sostiene il governo sia di chi vi si oppone. Da un lato si reitera la favola dell’ultima chance, ma ormai dopo Monti e Letta, per i quali pure si era detto lo stesso, ben pochi sono pronti a crederci ancora. Dall’altro, si parla di attentato alla libertà per ogni proposta di legge che vuole toccare radicati interessi di categoria e che pure verrebbero democraticamente approvati dal Parlamento. Alla fine sono tutte queste parole che rendono poco credibile qualunque promessa. L’Italia non è il Belgio – avevamo scritto più di un anno fa – e non è nemmeno il Regno Unito, diciamo ora. Ma questa nostra eterna diversità ci costa molto cara.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro