Col sigillo della Regina Elisabetta II sullo European Union (Withdrawal Agreement) Bill e l’approvazione dell’accordo di recesso da parte del Parlamento europeo e del Consiglio, la Brexit ha acquistato valenza giuridica. Non solo è stata sancita l’immediata fuoriuscita del Regno Unito dalle istituzioni europee, ma sono stati fissati paletti e scadenze per consentire, entro la fine dell’anno, la sua effettiva separazione dall’Unione europea. L’accordo — voluto fortemente dal Primo Ministro britannico Boris Johnson – ha superato i molteplici ostacoli che negli scorsi tre anni avevano causato un impasse tra gli sherpa inglesi e i loro colleghi di Bruxelles. Tra i termini concordati, uno particolarmente rilevante riguarda il negoziato commerciale tra Regno Unito e Ue: è stata fissata la data (31 dicembre 2020) che sancirà, anche sul piano sostanziale, la separazione. Fino ad allora nulla (o quasi) cambia e pertanto il Regno Unito resterà nel mercato interno, al pari di quanto oggi avviene per i tre Stati dello Spazio Economico Europeo non facenti parte dell’Ue (Norvegia, Islanda e Liechtenstein).
LA TRIANGOLAZIONE LONDRA-BRUXELLES-WASHINGTON. La data del 31 dicembre 2020, in linea di principio, dovrà essere rispettata anche qualora non si pervenga ad alcun accordo. E’, per la verità, prevista la possibilità di una sola proroga (della durata di uno o due anni), ma deve essere convenuta tra le parti prima del 1 luglio e, oggi almeno, non sembra vi sia molto “appetito” a Londra per un ulteriore rinvio che rischierebbe di far perdere l’immagine decisionista costruita dal premier britannico in questi mesi. Sarebbe, naturalmente, ingenuo pensare che si parta da zero, perché una parte del lavoro è già stata compiuta nei mesi scorsi, parallelamente alle altre negoziazioni, ma resta molto da fare in poco tempo. Le trattative inizieranno a marzo, dopo l’approvazione da parte del Consiglio Affari Generali della proposta di mandato negoziale alla Commissione. Il testo negoziato da Theresa May prevedeva la permanenza nell’unione doganale qualora non si fosse trovata un’intesa sull’Irlanda del Nord. Al contrario, l’accordo di recesso concluso da Johnson impone pochi vincoli e dunque lascia ancora aperte diverse opzioni, ma comporta maggiori rischi. Se non si troveranno in tempo utile compromessi sui punti critici, il Regno Unito potrebbe finire in una condizione equivalente al temuto no deal, suscettibile di creare gravi turbative per la circolazione di beni e servizi.
La questione è più delicata di quanto appaia perché non si tratta solo di definire i futuri rapporti tra Regno Unito e Ue. A ben vedere, infatti, la partita in gioco è trilaterale perché interessa anche Washington. Gli Stati Uniti, rimasti finora alla finestra, sono pronti a cogliere l’occasione della Brexit, per stipulare un accordo ad ampio raggio con il Regno Unito che ne sposti il baricentro degli interessi economici verso l’Atlantico. Il che impartirebbe un ulteriore colpo al sistema di scambi multilaterale e all’Unione, notoriamente percepita dall’amministrazione Trump più come un competitor che come un alleato.
In principio, tutti avrebbero interesse a concludere dei trattati che consentano il maggior grado di libero scambio di beni e servizi, ma in pratica è assai improbabile che, nell’attuale contesto politico, ciò avvenga. Il precedente del TTIP — l’accordo transatlantico promosso dall’amministrazione Obama – lo dimostra: a dispetto degli ingenti benefici economici che avrebbe potuto generare, è stato affossato dal fuoco incrociato delle opposizioni (ideologiche e di interesse) su entrambe le sponde dell’Atlantico. Benché l’“esecutore materiale” sia stato Donald Trump in uno dei suoi primi atti da Presidente, le diffuse resistenze, anche negli Stati membri dell’Unione europea, avevano ormai reso evidente l’impossibilità di concludere positivamente i negoziati. Inoltre, vi sono serie difficoltà legate alla peculiare posizione negoziale delle parti: tutte hanno, infatti, interessi ulteriori, rispetto a quelli strettamente economici. L’Ue – come ha finora dimostrato nel lungo braccio di ferro sapientemente condotto da Michel Barnier – negozierà con il Regno Unito tenendo al tempo stesso un occhio rivolto al proprio interno: il suo obiettivo non è solo ottenere condizioni soddisfacenti da Londra, ma anche lanciare un messaggio ad altri Stati membri, potenzialmente riottosi, perché capiscano quali sarebbero le conseguenze di un eventuale recesso. Dunque, l’accondiscendenza negoziale non è un’opzione. Gli Stati Uniti, invece, vorrebbero ricostruire e rafforzare la tradizionale special relationship col Regno Unito, sperando con ciò di allontanare Londra da Bruxelles. Il Regno Unito, infine, teme di trovarsi, alla fine della negoziazione, in una situazione sostanzialmente analoga a quella in cui sarebbe stato se avesse mantenuto il proprio posto all’interno dell’Unione, con la differenza che dovrà subire scelte altrui su standard, regolamentazione e commercio estero anziché concorrere alla loro determinazione. Deve, pertanto, a ogni costo modificare lo status quo e soprattutto evitare di restare vincolato alle norme europee. Vi è quindi una elevata probabilità che alla fine prevalgano motivazioni di ordine politico, a scapito delle concrete opportunità di liberalizzare i traffici commerciali con significativi vantaggi per tutti in termini di crescita. Insomma, come nel dilemma del prigioniero, è verosimile che all’esito di questi negoziati ci si accontenti di un risultato subottimale, pur di non essere spiazzati da un trattato nel frattempo concluso con l’altro contraente.
IL REGNO UNITO E LA GLOBALIZZAZIONE. Prima di entrare nel merito della questione, affrontando il contenuto dei possibili accordi, è opportuno ricordare brevemente quanto l’economia del Regno Unito sia debitrice della globalizzazione. La sua marcata proiezione esterna, risalente al passato imperiale, dipende oggi in larga parte dalla forte specializzazione nell’industria finanziaria maturata dall’area metropolitana di Londra e dalla riduzione dei vincoli alla libera circolazione dei capitali a livello europeo e globale [1].
Dal punto di vista degli scambi commerciali, così come in politica, il Regno Unito può considerarsi il più internazionale dei paesi europei o il più europeo dei paesi terzi. Nel 2018, l’interscambio commerciale complessivo era pari al 61,3 per cento del Pil, con un deficit delle partite correnti dell’1,5 per cento del Pil e una quota delle esportazioni del 29,9 per cento del Pil. Il principale partner commerciale del Regno Unito sono gli Stati Uniti che da soli intercettano il 14,1 per cento dell’interscambio (18,6 per cento dell’export e 10,9 per cento dell’import). Anche la Cina è importante: riceve il 3,6 per cento delle esportazioni britanniche e soddisfa una quota del 6,8 per cento delle importazioni, con una quota dell’interscambio complessivo stimabile nel 5,3 per cento (forse anche questo spiega le cautele di Johnson sul 5G). Il principale partner europeo è la Germania, che intrattiene con Londra il 10,2 per cento dei suoi scambi commerciali (8,7 per cento delle esportazioni, 11,6 per cento delle importazioni). L’Unione europea nel suo complesso ha dunque un peso preponderante, stimabile nel 49,4 per cento.
Molto simile è il quadro degli investimenti esteri nel e dal Regno Unito. Anche in questo caso gli Stati Uniti sono singolarmente la principale destinazione degli investimenti britannici (19,6 per cento nel 2018); l’Unione europea nel suo complesso ne attrae il 43,9 per cento (coi Paesi Bassi come principale approdo). Simmetricamente, gli Usa sono il paese più importante di provenienza degli investimenti diretti nel Regno Unito (26,3 per cento), ma dall’Ue arriva comunque il 42,9 per cento dello stock di investimenti esteri.
A dispetto dell’importanza delle relazioni commerciali ed economiche con l’Unione, evidente dalle statistiche appena citate, secondo il Single Market Scoreboard pubblicato annualmente dalla Commissione europea, Il Regno Unito era lo Stato membro meno integrato in assoluto dal punto di vista dello scambio di beni (10,8 per cento del Pil britannico nel 2017), e il terzultimo per quanto riguarda i servizi (4,8 per cento). In termini di stock di investimenti esteri, riceveva il 7,7 per cento di tutti gli investimenti provenienti da altri paesi Ue e l’11,3 per cento di quelli extra-europei, mentre a Londra erano attribuibili il 6,4 per cento di tutti gli investimenti intra- e il 10,2 per cento di quelli extra-europei.
Un aspetto particolarmente interessante – e indirettamente legato alla performance commerciale del paese – riguarda l’atteggiamento nei confronti del diritto europeo. E’ un tema rilevante in questa discussione, perché l’obbligo di adeguare il proprio ordinamento al diritto dell’Unione è, contemporaneamente, una delle ragioni che spiegano l’importanza del rapporto economico bilaterale, ma anche una sua conseguenza. Al di là dei doveri giuridici derivanti dal Trattato (che tra pochi mesi verranno meno) il sistema produttivo e finanziario britannico è talmente proiettato verso l’Ue che concretamente ha bisogno di una convergenza normativa, o almeno di contenere gli elementi di divaricazione o, peggio, incompatibilità. Contrariamente a quello che si potrebbe credere, pertanto, il Regno Unito è stato, negli scorsi decenni, uno Stato membro relativamente ligio: il “deficit di recepimento”, che misura le resistenze nei confronti delle direttive Ue, si ferma allo 0,8 per cento, sostanzialmente in linea con la media. Diversa è la situazione se guardiamo alle procedure di infrazione: al momento dell’ultimo censimento ne risultavano pendenti ben 32 (di cui 11 di recente apertura), contro una media europea di 25 per Stato membro. Anche la durata delle procedure era superiore alla media (41,3 mesi contro 38,1), ma i tempi di adeguamento alle decisioni della Corte di giustizia risultavano inferiori alla media (22,1 mesi contro 28,1). Inoltre, il Regno Unito ha un ottimo track record in quanto ha subito meno condanne della maggior parte degli altri Stati membri nelle azioni di fronte alla Corte.
In sintesi, i dati economici e i comportamenti di Londra confermano la percezione del Regno Unito come un paese che, pur essendo relativamente lontano dall’Unione europea nei propri interessi, vi è comunque profondamente legato, sia dal punto di vista dei rapporti economici sia da quello normativo. Ciò trova conferma nelle analisi finora fornite dal Governo britannico che prevedono gravi conseguenze dalla Brexit: in tutti gli scenari contemplati, infatti (a dispetto degli slogan della campagna elettorale) l’uscita dall’Ue è destinata a danneggiare l’economia del paese, e il danno sarà tanto più pronunciato quanto maggiore sarà la distanza da Bruxelles.
L’IMPERVIO SENTIERO TRA BRUXELLES E WASHINGTON. Verosimilmente, Johnson mira a rafforzare la propria posizione negoziale, conducendo le trattative su entrambi i tavoli allo stesso tempo e ostentando una certa equidistanza. Ciò non per perseguire una impossibile politica dei due forni, ma per ottenere le migliori condizioni da entrambi, generando una sorta di competizione per lui vantaggiosa. Il problema è che Bruxelles e Washington hanno un’agenda incompatibile con quella di Downing Street e, per certi versi, tra loro opposta.
La Commissione europea teme che Londra intraprenda una sorta di gara al ribasso sul piano regolatorio, a proprio danno. Barnier ha chiarito in modo inequivocabile che l’Ue è pronta a concludere un accordo, unico nel suo genere, senza dazi e senza quote, ma solo a condizione che non ci sia dumping né concorrenza sleale da parte del Regno Unito. Le parole chiave, che danno la cifra del confronto in essere, sono contenute nell’art. 77 della Dichiarazione politica annessa all’Accordo di separazione ove si parla di “level playing field”. Il concetto è stato chiaramente ribadito nelle direttive sul negoziato – allegate alla raccomandazione della Commissione al Consiglio – emanate il 3 febbraio 2020: “While preserving regulatory autonomy, the envisaged partnership should put in place provisions to promote regulatory approaches that are transparent, efficient, promote avoidance of unnecessary barriers to trade in goods and are compatible to the extent possible”. Per l’Unione è dirimente. Al tempo stesso, a Bruxelles si teme che il Regno Unito venga ad acquistare un peso eccessivo nello scenario commerciale internazionale e si vuole assolutamente mantenere il ruolo di interlocutore privilegiato verso gli Stati terzi – se non altro per le proprie dimensioni demografiche (circa 450 milioni di abitanti) e di mercato (circa il 18 per cento del Pil globale). In sintesi, se gli inglesi vogliono fare accordi con paesi extraeuropei, devono mettersi in fila; e se vogliono mantenere accesso al mercato Ue, devono adeguarsi a buona parte delle regole interne.
Dall’altro lato dell’Atlantico, gli Stati Uniti si trovano in una condizione simmetrica. Trump non fa mistero della propria ostilità per il disegno europeo e dell’avversione per la Germania. Tuttavia, Europa e America sono troppo interconnesse, dal punto di vista economico e geopolitico, per poter raffreddare i propri rapporti oltre una certa soglia. Quindi, nonostante le schermaglie, le minacce di ritorsioni commerciali per le varie partite aperte (5G, web tax, sussidi all’Airbus, ecc.) alla fine è costretto ad abbozzare e giocoforza fare i conti con l’Unione. Preferirebbe di gran lunga instaurare rapporti bilaterali coi singoli Stati membri, ma non può dal momento che la politica commerciale è una competenza esclusiva dell’Unione. Pertanto, l’accordo commerciale con il Regno Unito rappresenta un’occasione ghiotta per indebolire l’Europa. Per questo, diversi teorici della Brexit vedono negli Stati Uniti l’ancora di salvezza per riconquistare un ruolo importante sulla scena internazionale e per metter pressione sull’Ue. Tuttavia, questa strada rischia di rivelarsi impervia. Intanto perché un accordo commerciale è facile a dirsi ma complicato da farsi. Inoltre, perché è probabile che gli Usa, consapevoli della posizione di debolezza britannica, chiedano delle concessioni significative sul piano politico, oltre che commerciale. Per esempio, la decisione di dare il via libera alla partecipazione di Huawei alla costruzione della rete 5G nel Regno Unito costituisce indubbiamente un serio ostacolo sulla via del negoziato. Analoghe considerazioni potrebbero farsi per l’eventualità di una webtax britannica che vada a colpire i colossi Usa. E ancora: i temi più importanti per gli americani (prodotti alimentari, agricoltura, sanità) sono quelli più difficili da digerire per i consumatori europei (e da questo punto di vista gli inglesi lo sono certamente). Giustificata o no, da questo lato dell’Atlantico prevale la percezione che gli standard americani siano nettamente inferiori. Difficilmente Johnson avrebbe vita facile se aprisse le porte a questi prodotti; senza contare che in tal modo metterebbe in difficoltà la stessa industria britannica e la libera circolazione dei beni con il resto dell’Europa.
Insomma, al di là delle buone intenzioni, la partita a tre è molto rischiosa per Johnson. Giocando tutti più o meno a carte scoperte, è facile prevedere chi alla fine si riveli essere il vaso di coccio e chi di ferro.
QUALE RAPPORTO CON L’UE? Alla luce di quanto si è detto, l’accordo con l’Ue – al di là dei proclami retorici – resta prioritario. Ma quale tipo di accordo? Le opzioni sul tavolo sono tre: i) mantenere l’accesso al mercato interno; ii) concludere un accordo di libero scambio (relativo a merci e servizi) ed eventualmente di partnership che comprenda anche gli investimenti; e iii) applicare le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio come cornice generale degli scambi reciproci.
La prima opzione (sulla scorta di Norvegia, Islanda e Liechtenstein) è quella che implica il minore cambiamento rispetto allo status quo. Essa però presuppone che il Regno Unito si vincoli a recepire nel proprio diritto gran parte delle normative Ue che definiscono gli standard a cui devono conformarsi i prodotti (beni e servizi) per essere venduti in un altro Stato membro. E questo sembra essere un boccone troppo amaro da deglutire per Johnson. Inoltre, comporterebbe de facto che il Regno Unito si accodi all’Ue nella negoziazione commerciale con gli Usa, di fatto privandolo della tanto desiderata autonomia negoziale. Benché questa sia probabilmente la scelta più conveniente, pare anche la più difficile da realizzare per motivi politici. E’, infatti, difficile immaginare che Bruxelles ceda sul punto sia per contenere in futuro le spinte centrifughe sia perché teme Londra punti ad attrarre investitori con una politica fiscale aggressiva e una forte deregolamentazione (si parla, in gergo, di ricreare una Singapore sul Tamigi). D’altronde, gli avversari interni di Johnson avrebbero gioco facile a presentare questa strada come un cedimento se non addirittura un rinnegamento della Brexit.
La seconda opzione (utilizzata con la Svizzera) lascerebbe, invece, le mani libere a Downing Street che potrebbe ritagliarsi un vestito su misura, decidendo se limitare l’ambito dell’accordo alla sola circolazione di beni e servizi o allargarlo alle numerose altre tematiche incluse nella Dichiarazione Politica (che non è vincolante, ma impegna solo le parti a negoziare in buona fede). Quest’ultima, infatti, non contempla soltanto l’abolizione di dazi doganali e delle restrizioni quantitative, ma prevede anche misure per evitare le barriere tecniche, la liberalizzazione dei servizi oltre quanto stabilito dall’OMC, la cooperazione tra agenzie, la protezione dei dati, i servizi finanziari, ecc. oltre che una partnership in materia di sicurezza e giustizia penale. E’ questa certamente l’opzione preferita dal governo britannico: il 3 febbraio, infatti, Johnson ha comunicato in una dichiarazione al Parlamento la propria posizione, confermando l’intenzione di procedere attraverso una pluralità di accordi (libero scambio, pesca, sicurezza interna). In tal modo, procedendo in parallelo su diversi fronti, si evita il rischio di bloccare le trattative su qualche punto particolarmente spinoso. Il problema è che il negoziato potrebbe comunque avere una durata troppo lunga (per avere un termine di confronto, un trattato relativamente semplice come il Ceta, che lega Ue e Canada, ha richiesto cinque anni di intensa negoziazione, cui hanno fatto seguito due anni di revisione del testo). Inoltre, ove si trattasse di materie di competenza concorrente (in quanto riguardanti anche politiche diverse da quella commerciale), come appunto nel caso del Ceta, sarebbe poi necessaria anche la ratifica da parte degli Stati membri (e in alcuni casi anche dei parlamenti sub-nazionali). Fino ad allora, il trattato sarà in vigore solo in forma provvisoria (e non per le parti che richiedono la ratifica degli Stati membri). Il rischio è dunque che le negoziazioni commerciali durino troppo e, nel frattempo, le incertezze sul loro esito abbiano un grave effetto depressivo sul commercio. Infatti, già oggi le lungaggini della Brexit hanno causato una riduzione dell’interscambio con l’Europa, quantificata nell’ordine di qualche miliardo di sterline nel 2016 – pochi punti percentuali rispetto al valore dell’interscambio complessivo, eppure un segnale tangibile e preoccupante. Per avere un quadro completo delle difficoltà che attendono il Regno Unito, si pensi che contestualmente dovrà negoziare con numerosi Stati ai quali oggi è legato da trattati conclusi dall’Ue che gli garantiscono l’accesso a circa 70 mercati. Al momento sono stati firmati accordi di continuità volti a confermare 20 accordi con 50 paesi, ma tutti gli altri rimangono da negoziare.
La terza opzione – chiaramente residuale – è la peggiore, ma paradossalmente in questo momento è anche la più probabile. Qualora il Regno Unito non riesca a concludere un accordo entro fine anno e non abbia chiesto entro il primo semestre una proroga, si avrà sostanzialmente una hard Brexit. In questo caso, salvo per quanto riguarda le previsioni relative all’Irlanda del Nord contenute nel Withdrawal Agreement, non ci sarebbe in essere alcun accordo commerciale tra Regno Unito e Ue. Si applicherebbero, pertanto, le previsioni dell’OMC (come, per esempio, con gli Stati Uniti) con gravi disagi causati non tanto dal maggior onere da sopportare per le importazioni, ma soprattutto per il repentino cambio di regime che comporterebbe la necessità di autorizzazioni, registrazioni, licenze, restrizioni all’importazione, problemi relativi all’origine delle merci o addirittura di spostare la fornitura dei prodotti ad altre sedi all’interno dell’Ue [2]. Basti ricordare che in occasione delle proroghe concordate in passato, Regno Unito, Ue e Stati membri misero in atto piani d’emergenza (e in taluni casi adottarono delle normative ad hoc) per assicurare la continuità nelle forniture di certi beni (come i medicinali) o servizi (finanziari).
IL RISCHIO DI UNA HARD BREXIT. Dal referendum del 2016, il Regno Unito ha impiegato ben tre anni e mezzo a trovare sia un equilibrio politico interno (che nei fatti è arrivato solo a valle delle elezioni del dicembre 2019), sia un accordo di massima con l’Ue per disciplinare la separazione. A dispetto delle apparenze, finora si è definita solo la cornice all’interno della quale dovranno essere intrapresi i prossimi passi. Le modalità della Brexit sono ancora in larga parte incognite e il tempo è assai limitato: in assenza di ulteriori proroghe – che Johnson non ha alcuna intenzione di chiedere – tutti i giochi dovranno essere fatti entro il 31 dicembre 2020. Trattandosi verosimilmente di accordi misti, i negoziati dovranno concludersi all’incirca in ottobre per consentire le ratifiche da parte dei Parlamenti nazionali. Oltre tutto, il deal ottenuto dall’attuale premier, pur rivelatosi vincente sul piano politico interno, è sotto molti aspetti peggiorativo rispetto a quello della May. Infatti, lascia aperta la porta dell’hard Brexit, che dal punto di vista del mero interesse economico sarebbe stato opportuno scongiurare.
La politica commerciale presenta uno dei puzzle più difficili da risolvere. Dal punto di vista simbolico e immediato forse appare meno pressante rispetto ad altri punti dolenti – quali l’accordo sulla pesca, lo status di Gibilterra, la regolamentazione finanziaria e il ruolo della Corte di giustizia europea. Ma difficilmente, in sede negoziale, la retorica del “no deal is better than a bad deal” potrà ammorbidire gli europei, i quali sono ben consapevoli che si tratta di uno slogan (forse) elettoralmente efficace, ma economicamente dolorosissimo.
Né Johnson può sperare di mantenere il piede in due scarpe, alzando l’asticella ora con l’Ue, ora con gli Usa, nella speranza di uscire vincitore su entrambi i fronti. Non esiste negoziato in cui, per ottenere qualcosa, non si debba rinunciare a qualcos’altro: il paradosso, in questo caso, è che per raggiungere un buon compromesso da una parte, è necessario allentare la presa dall’altra. Infatti, sia l’Ue sia gli Usa perseguono obiettivi geopolitici (oltre che economici) che sono in buona parte incompatibili. Trump vuole usare il Regno Unito per indebolire l’Europa, ma l’Europa ha bisogno di tenere il punto proprio per rafforzarsi sia internamente, sia nei confronti degli Stati Uniti. Inoltre, né la Casa Bianca, né Bruxelles possono riconoscere a Londra un ruolo
[1] Salvo dove diversamente specificato, i dati forniti in questa sezione provengono dal Department for International Trade britannico.
[2] Si veda la nota dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, “Uscita del Regno Unito dall’Unione europea – Hard Brexit – Possibili ripercussioni doganali” consultabile sul sito del governo italiano